E’ un fatto quasi consueto ascoltare ormai critiche dettagliate, e sempre più incalzanti, sui problemi innestati da una globalizzazione realizzata a senso unico, tanto mal gestita da creare sommovimenti sociali e politici nei Paesi democratici dell’Occidente. E’ tuttavia realisticamente impossibile che i movimenti cosiddetti populisti possano rovesciare le maggioranze del Parlamento dell’Unione Europea, ma che dopo le elezioni di maggio i rapporti di forza cambino e si vada incontro a un’instabilità, che alla fine può creare una lenta destabilizzazione e forse un ridimensionamento dell’Unione Europea, viene messo in conto da molti analisti politici.



C’è un clima di previsioni fosche, determinato dalla turbolenza sociale in Francia, dalle incognite finanziarie della Germania e dal cambio di direzione politica, dai segnali di una frenata economica e finanziaria generale, dal trambusto oggettivo che viene da quella che è ormai chiamata la “Silicon Valley del populismo”, cioè l’Italia.



Come si è arrivati a questo punto e quali errori sono stati commessi? E’ addirittura possibile che un sindacalista di sinistra, come Giorgio Cremaschi, urli in televisione, incitando da un lato a una rivolta di tipo francese in Italia e dall’altro rimpianga i tempi di piena occupazione della tanto vituperata prima repubblica. E’ possibile anche che un grande economista francese, come Jean Paul Fitoussi, arrivi alla televisione italiana e sottolinei tre fatti incredibili: le persone, i lavoratori, chiedono protezione; Pierre Moscovici non è certo un “eroe francese”; le differenze fiscali, drammatiche per l’Europa, sono state “coltivate” dal presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker. Cose che non faranno piacere a Emmanuel Macron, ma che fanno letteralmente strabuzzare gli occhi ad ascoltatori abituati alla noiosa retorica del dibattito politico italiano.



Contrariamente a molti che non analizzano neppure le ragioni di una sconfitta, limitandosi ad accusarsi a vicenda, e a quelli che dimenticano le occasioni perdute del passato, si possono invece cercare le cause delle origini di questo malessere generale in cui viviamo.

Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, spesso accusati a vanvera di aver creato un debito pubblico insostenibile (falso, dati alla mano), c’era chi aveva una visione dei problemi che si dovevano affrontare, studiava e presentava piani. Era il periodo dell’implosione del comunismo e della vittoria storica del socialismo democratico.

Tre uomini in Europa occidentale, con destini che saranno segnati da contraccolpi imprevedibili, avevano affrontato il problema delle diseguaglianze nel mondo, quello della cooperazione tra Terzo mondo e Paesi sviluppati e quindi quello di una globalizzazione ben gestita, che evitasse una migrazione disperata, senza accoglienza adeguata e senza uno sviluppo adeguato dei Paesi di provenienza.

Oggi si sente spesso straparlare di “piani Marshall” per i Paesi del Terzo mondo e da qualche settimana di questo celebre Global compact, che sarebbe gestito direttamente dall’Onu. Intanto, mentre si confabula, si assiste, senza poter intervenire, all’espansione cinese in Africa, con una forma di moderno neocolonialismo. E’ di questi giorni il “regalo” di Pechino ai Paesi africani di 60 miliardi di dollari, non si sa bene a quale titolo, ma non certamente per beneficenza.

Eppure nel 1980, la “Commissione indipendente sui problemi dello sviluppo internazionale”, presieduta dal grande Willy Brandt (socialista, ex sindaco della Berlino libera, ex cancelliere tedesco, ridimensionato a sorpresa dal “caso Guillaume”) presenta le sue analisi e le sue proposte tese a migliorare le relazioni tra i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo. Nello stesso anno, il socialista svedese Olof Palme fonda la “Commissione sul disarmo e la sicurezza”, che affronta i problemi della minaccia di una guerra nucleare. Palme sarà ucciso in un attentato per strada nel 1986.

E’ sulla base degli accordi tra socialisti internazionalisti (quando non perdevano ancora neppure in Andalusia) che un nome, che è stato per lungo tempo quasi impronunciabile in Italia, Bettino Craxi, organizza a Roma nel 1984 un convegno dove viene ribadita la necessità della sicurezza comune legata a una prosperità comune. Craxi spiega che la pace e lo sviluppo sono i maggiori problemi da affrontare, ricordando la posizione dell’Italia sull’annullamento del debito nei Paesi in via di sviluppo.

Quella di Craxi è una sorta di posizione veramente rivoluzionaria, su cui sia il fronte comunista che quello neoliberista non vuole neppure affrontare oppure volta la faccia dall’altra parte. Infatti c’è chi fa affari di altro tipo con i Paesi del Terzo mondo in quel periodo. Un dato impressionante: a cavallo tra la fine degli anni Settanta e quella degli anni Ottanta l’aumento delle spese militari è più alto rispetto a quelle civili. Brandt conia uno slogan: “La miseria riarma i popoli”.

Intanto nel Paese di “Pulcinella” si faceva ancora il tifo per l’Urss e i cubani, che sostenevano la guerra in Angola e in Mozambico. E a questo punto che nasce l’Internazionale socialista, tra Brandt, Palme, Mitterrand e Craxi. Ha ben altri obbiettivi, molto più costruttivi.

Nel 1989 Craxi diventa rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite, Javier Pérez de Cuéllar, e comincia una missione internazionale per esplorare mezzi e strade possibili per una rapida riduzione del debito nei Paesi in via di sviluppo. A Craxi viene specificamente chiesto di prendere contatti con i Paesi debitori e creditori e le istituzioni creditizie. E quindi di redigere un rapporto contenente analisi e raccomandazioni. Nell’ottobre del 1990 Craxi vola a New York e presenta il suo rapporto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Ha ottenuto la riduzione del debito e in alcuni casi l’azzeramento per i Paesi più poveri. Malgrado una situazione internazionale non semplice (basti pensare ai piani dei golpisti in Urss contro Gorbacev), l’Assemblea dell’Onu approva all’unanimità il piano di Craxi. A questo punto viene nominato consigliere speciale per i problemi dello sviluppo, del consolidamento della pace e della sicurezza. Questo incarico gli verrà rinnovato nel marzo del 1992 da Boutros-Ghali.

Che cosa aveva visto in concreto Bettino Craxi? Se in questi anni la globalizzazione a senso unico ha creato differenze sociali nei Paesi ricchi, ha risolto anche alcuni problemi a livello internazionale, ma non certo quello di uno sviluppo equilibrato tra Paesi ricchi e poveri. Craxi riteneva il Mediterraneo la “cerniera del mondo” e quindi vedeva nell’iniziativa italiana un salto di qualità e di influenza del suo Paese. Ma comprendeva che, per ottenere il ruolo di gestore di quella cerniera c’erano alcune zone in grande sofferenza e che lì occorreva intervenire. Le metteva in questo ordine: l’Africa mediterranea e il Medio oriente, l’Africa sub-sahariana, varie zone dell’America latina, alcune zone dell’Asia e l’Est europeo dopo il crollo dell’impero sovietico.

Tutto il riformismo (un tempo parola vietata nell’Italia “rivoluzionaria”, nel Komintern e poi nel Kominform) che aveva imparato da Turati, dalla Kuliscioff e dal lungo tragitto storico di Pietro Nenni, Craxi lo trasferiva in una politica estera di pace e di sviluppo equilibrato, dopo i fatti devastanti prima della colonizzazione e poi della decolonizzazione improvvisa e forse, in alcuni casi, teleguidata malamente.

Accade così che, mentre c’è chi blatera sulla “fine della storia”, chi scopre la massimizzazione del profitto finanziario, chi rispolvera il trading dei titoli con la banca universale e lancia in chiave antipolitica la globalizzazione, si dimentichi di tutto quello che può avvenire come conseguenza sociale, politica e storica.

Gli anni che seguono sono una sequenza di sfrondoni politici. Si cerca di rimediare in qualche modo alla crisi del 2007-2008, che dura ancora, si tenta di mobilitarsi per una produttività che limita i diritti dei lavoratori, si guarda al problema della migrazione prima con sufficienza, poi varando un Global compact che l’Onu non sarà mai in grado di realizzare e che nel frattempo sta creando crisi di governo a catena (adesso c’è quello belga in fibrillazione). Praticamente dopo quasi trent’anni, il piano di Craxi, approvato all’unanimità dall’assemblea dell’Onu, che azzerava i debiti dei Paesi del Terzo mondo e promuoveva una collaborazione sempre più intensa tra Paesi ricchi e poveri, giace probabilmente in un cassetto del Palazzo di Vetro, ma il Global compact, che suscita risentimenti ovunque e non convince nessuno, ci viene illustrato come una sorta di panacea dal nostro ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, per ordine di “chi conta”.

La storia si ripresenta in farsa, tanto per non scordarsi mai Karl Marx. Bettino Craxi morirà in esilio a Hammamet, in Tunisia, dopo essere stato bandito dal suo Paese dai genialissimi e zelantissimi pm di “Mani pulite”, seguaci di un inquietante doppiopesismo. E il nostro spazio in politica estera e di fronte ai fenomeni della migrazione e della globalizzazione è occupato dai nuovi Richelieu e dai nuovi Metternich. Allegria!