Colpiva, ieri mattina, il risalto dato da tutti i grandi quotidiani italiani alla nuova “ecotassa auto” spuntata nella manovra e il quasi-oscuramento degli sviluppi sull’ecotassa francese. Eppure proprio il giorno prima a Parigi l’amministrazione Macron aveva avviato il suo drammatico dietro-front sulla carbon tax: carburante della rivolta dei “giubbetti gialli”, che ha incendiato Parigi come nel 1968 (ma qualcuno è giunto a parlare di 1789, la madre di tutte le insurrezioni fiscali). A maggior ragione val la pena di mettere a confronto le due situazioni, tentando così di approfondire anche un caso curioso in sé: perché i media italiani stiano raccontando poco o nulla dei gilet jaunes appena al di là delle Alpi, proprio quando al di qua è in corso una polemica violenta sulle (presunte) minacce alla libertà di stampa e quindi alla (pretesa) tutela della democrazia garantita da un’informazione obiettiva, professionale, trasparente.
Dunque: il Governo francese aveva imposto aggravi fiscali dell’8% sui carburanti non ecologici per stimolare il passaggio a veicoli di nuova generazione. Nessuno può dimenticare che il grande accordo globale sul clima (Cop 21) è stato firmato a Parigi esattamente tre anni fa ed Emmanuel Macron, giunto all’Eliseo, ne ha subito fatto punta di lancia nel proprio arsenale politico-ideologico: quello della sua Francia en marche, “centrista 2.0”, iper-riformista, tecno-ecologica e sviluppista, cardine attivo di nuovi equilibri geopolitici fra Ue, Usa e Cina. La carbon tax – tributaria del globalismo politicamente corretto “obamiano” – era stata peraltro miscelata da Macron con una misura fiscale nettamente “trumpiana”: l’abolizione dell’imposta patrimoniale (tre miliardi di gettito lasciati già nel 2018 nelle tasche dei riches francesi). È un altro provvedimento che Macron starebbe ora precipitosamente rimettendo in discussione e che ha contribuito a portare al 2,7% il deficit francese previsto per il 2019 (ma con un debito nettamente sotto controllo e quindi senza la minima obiezione da parte di Bruxelles).
La politica finanziaria di Macron ha in ogni caso finito per suscitare la collera “populista” dei ceti medi e popolari a basso reddito, consumatori di auto e carburanti “vecchi”. Nessuna contrarietà hanno invece mai manifestato – finora – produttori di auto o dei sindacati dei lavoratori del settore (Renault-Toyota e Peugeot hanno passaporto francese e importanti investimenti in corso sulla transizione ecologica). Nessuna reazione specifica era mai giunta neppure dalle forze politiche strutturate: tanto che l’insurrezione “gialla” ha preso in contropiede perfino il Front National lepenista e soprattutto le ceneri frammentate della sinistra transalpina, che dopo la disfatta elettorale del 2017 sembrava faticosamente puntare sul radicale Jean-Luc Mélenchon.
Fin qui “l’autunno francese” 2018, tutt’altro che concluso. Sabato 8 il giacobinismo jaune, indefinito e in parte indefinibile, ha promesso di scendere di nuovo in piazza. A Parigi – da due secoli capitale libertaria del pianeta, rifugio di antifascisti italiani negli anni 30 e di esponenti della lotta armata nel secondo Novecento – potrebbe scattare stato d’emergenza: sempre che i flics – essi pure lavoratori a basso reddito, scontenti del loro datore di lavoro statale – non comincino a fraternizzare con i gilets (le cronache francesi hanno già citato qualche caso di casco tolto).
Nel frattempo, senza andare troppo lontano, il progetto di riforma dell’eurozona su cui Macron aveva strappato ad Angela Merkel un consenso di principio si è già arenato. Osservando le scena, i più autorevoli media francesi sono schierati in modo abbastanza compatto su posizioni “legittimiste”. A cominciare da Le Monde, bibbia gauchiste internazionale, quasi nessun quotidiano ha mostrato esitazioni nella scelta fra le President e i “teppisti” che hanno rovinato l’ultimo sabato negli arrondissement centrali di Parigi.
In Italia, intanto, il governo Salvini-Di Maio – sostenuto da forze cosiddette “populiste” uscite vincitrici da elezioni molto più proporzionali di quelle francesi – ha messo sul tavolo nelle ultime ore un’ecotassa che non compariva affatto nel suo “contratto” e tanto meno nella bozza principale del budget 2019. Palazzo Chigi lo ha fatto in sede di “rimodulazione” forzata della manovra 2019, che fissava al 2,4% il deficit e che è stata bocciata formalmente dalla Commissione Ue. E vi sono pochi dubbi che l’apertura senza precedenti di una procedura d’infrazione sul debito contro Roma abbia celato dietro lo zelo tecnocratico di Bruxelles, la dura opposizione politica franco-tedesca contro l’Italia “vomitevole” (copyright Macron) governata da Lega e M5S, a pochi mesi dal voto europeo.
Nel merito, tuttavia, l’ecotassa italiana non andrebbe a colpire la benzina o il gasolio “sporchi” di chi ha già un’auto “vecchia”: colpirebbe invece chi volesse acquistare in futuro un’auto non ecologica mentre sarebbe agevolato chi ne acquistasse una di nuova generazione. Per questo, le prime reazioni negative sono giunte in via indiretta solo da un mondo che i grandi media nazionali hanno qualificato in modo vago come “produttori, importatori e sindacati”. Il riferimento sembra evidente al solo carmaker che può essere definito ancora “italiano”: a Fca, che a ogni buon conto ha sede legale in Olanda, quartier generale negli Usa e amministratore delegato con passaporto inglese. Lo stesso azionista di maggioranza, Jaki Elkann, nipote di Gianni Agnelli, ha primo passaporto americano, anche se fra i suoi principali interessi in Italia vi è la partecipazione qualificata nell’editoriale di Repubblica e Stampa. Riguardo i “sindacati”, è probabile che il richiamo sia alle organizzazioni dei metalmeccanici: cui proprio in questi giorni il Lingotto ha comunicato la richiesta al Governo di un anno di cassa integrazione per 3mila dipendenti a Mirafiori. La misura andrebbe in ogni caso a ri-formare il personale per la produzione della nuova 500 elettrica.
In sintesi: in Francia l’amministrazione Macron ha varato una politica industriale e finanziaria nettamente orientata ai desiderata dei grandi gruppi, dei loro azionisti e manager, dell’immagine politico-personale del Presidente. I cittadini-elettori-contribuenti svantaggiati non hanno gradito e sono scesi in piazza, con escalation da metodi da black bloc mano a mano che un Presidente (forte solo del 23% del consensi al primo turno delle ultime presidenziali) respingeva con disprezzo un’opposizione crescente. Di fronte a un’emergenza che da sociale si andava facendo di ordine pubblico, Macron ha cambiato politica: anche se questo rischia ora di “azzoppare” in modo irreparabile la sua presidenza e forse lo stesso fronte politico legittimista in Europa.
Potrà piacere o non piacere, le analisi di scenario e i giudizi sull’operato del Presidente possono essere i più disparati, ma non si può negare che in Francia sia andata ancora una volta in scena la democrazia reale. Perché i media italiani continuano a essere così cauti e reticenti su questo grande passaggio di storia politica europea? Perché un grande quotidiano che due settimane fa ha chiamato alla “disobbedienza civile” contro il Governo italiano ignora quella in corso contro il Presidente francese?
Al di qua del confine di Bardonecchia o Ventimiglia – di questi tempi non molto aperto – sta intanto andando in scena un’altra pagina non piccola di democrazia politico-economica in Europa. Il Governo italiano in carica avrebbe voluto adottare una politica di bilancio espansiva, che la Commissione Ue non ha però considerato accettabile, anzi ha respinto e censurato con gli strumenti più severi previsti dal Trattato di Maastricht. Palazzo Chigi si stava muovendo sulla base di un mandato elettorale recente e preciso: contrastare la povertà crescente di larghi strati della popolazione italiana dopo anni e anni di austerity e recessione. Ma a Bruxelles (a Parigi, a Berlino) questo non interessa. E dire che in nome di quella priorità l’esecutivo giallo-verde ha depennato da subito la prospettiva di abbassare le tasse alle imprese, pur tenendo fuori dall’agenda l’ipotesi socialmente dirompente, di un’imposizione straordinaria sui patrimoni.
Di fronte all’opposizione politico-tecnocratica dell’Europa “carolingia” l’esecutivo Conte sta ora aggiustando la manovra per far rientrare il deficit al 2%. Nel provvedervi ha inserito un’imposta ecologica sulle auto (Il sindaco Pd di Milano, Beppe Sala, sta utilizzando la stessa leva in una metropoli candidata all’Olimpiade). La mini-manovra fiscale sull’auto penalizza in ogni caso la vendita di vetture che già da tempo, a livello globale, si era pensato di mettere fuori legge già dal 2020: esattamente come auspicava l’Accordo di Parigi. Sono invece previsti bonus per l’acquisto di auto ecologiche: naturalmente offerte dai produttori di auto più avanti nella progettazione. Quali “imprese e sindacati” sono contro questa svolta? E perché i grandi media mostrano incertezza e disagio nel raccontarla e valutarla? Sono forse alleati in incognito dei giubbetti gialli francesi anti-Macron, cui però rifiutano di dare attenzione giornalistica? Si sono riconvertiti in fretta all’anti-ecologismo trumpiano? Non sono più d’accordo coi loro stessi editorialisti che continuano a invocare il rispetto stretto dei parametri finanziari Ue?
Ne frattempo in Italia nessuno in questi mesi è andato in piazza a incendiare auto a Milano o a Roma. Vorrebbero farlo frange del mondo imprenditoriale raccolte sotto l’etichetta mediatica “partito del Pil”, ma per ora si è visto solo il Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia (non scortato da alcun altro big) unirsi ad alcune centinaia di aderenti alla Confesercenti e alla Cna e chiedere le dimissioni del premier Conte. La manifestazione si è svolta a Torino, ma non al Lingotto, dove il Pd è nato nel 2007. Nemmeno la Fiat è troppo convinta di indossare il giubbetto giallo. Alla rovescia.