Visto da lontano, niente sembra più straordinario e fantastico in questi giorni del giornalismo italiano. I vecchi ordini di batteria appaiono tutti cambiati, e il giornalismo via stampa e via televisione, che una volta controllava praticamente tutta l’opinione pubblica del paese, da una parte è in mezzo a un terremoto mostruoso, e dall’altra parte sta diventando sempre più ininfluente grazie all’avanzata delle informazioni via web.
L’ultima grande novità è solo la punta dell’iceberg che finisce di rovesciare i tanti equilibri dell’informazione tradizionale. Giuliano Ferrara, per quasi trent’anni paladino e alabardiere di Silvio Berlusconi, ha dichiarato in questi giorni che voterà invece per il Pd di Matteo Renzi.
Questo cambio di casacca è solo l’ultimo in ordine di tempo. Eugenio Scalfari padrino e ideologo della trasformazione del Pci in formazione socialdemocratica integrata con le scelte democratiche europee, aveva dichiarato settimane prima, come si è più volte documentato e commentato su queste pagine, che tra il M5s e Berlusconi avrebbe scelto Berlusconi. Nell’alternativa ha cancellato completamente il Pd come se ormai fosse ininfluente. Il Corriere della Sera (con la sua costola tv de La7), per oltre un secolo bastione del fermo grigiore centrista del paese, negli ultimi mesi ha preso posizioni sempre più vicine a quelle del M5s, il quale per slogan e atteggiamenti è lontanissimo dal rigore borghese ostentato a via Solferino.
Dietro queste scelte ci sono sempre ragionamenti non banali, non si tratta di cambi di casacche facili.
In realtà questi cambiamenti testimoniano le difficoltà complessive dei grandi pensatori del paese a interpretare e cercare di indirizzare la nazione al prossimo appuntamento elettorale del 4 marzo.
C’è grande disordine sotto il cielo, direbbe Mao Zedong. Ma in questo disordine non si vede ancora il contorno di un futuro ordine chiaro per riportare la pace sotto il cielo. Mao aveva le sue idee, per quanto sbagliate oggi appaiano.
Tutte e tre le formazioni che si affrontano nella sfida elettorale (centrodestra, centrosinistra e M5s) hanno grosse pecche. Tali pecche sembrano riconosciute da tutte le formazioni le quali con il loro slogan sembrano invitare gli elettori a votare non il meglio ma il meno peggio. Nel centrodestra si propongono come argine al caos del M5s, con toni diversi, mentre M5s rivendica di essere la rivoluzione contro i partiti. Tutti sono contro qualcosa, ma a favore di cosa sono?
Questo disordine mentale è il peso più profondo che grava già oggi sul dopo voto. Al di là dei numeri che usciranno e delle tattiche di alleanze che potranno essere trovate dopo il 4 marzo, poiché non esiste alcuna idea vera su cosa deve fare l’Italia, qualunque scelta alla fine sarà dettata dall’esterno.
Ciò andrebbe bene se all’esterno ci fosse un piano specifico sull’Italia. Purtroppo Germania e Francia, i due paesi più interessati alla stabilità del paese, non hanno neanche loro un’idea strategica sull’Italia. Del resto perché dovrebbero? L’Italia è una palude pericolosissima dove infilarsi.
Essi quindi hanno solo un piano minimale: che l’Italia paghi i suoi debiti e che non faccia troppa confusione. Però questi due piani minimali per funzionare dovrebbero avere un’idea di sviluppo propositiva. Ma tale idea non esiste. All’Italia servirebbe un pensiero forte nuovo, come accadde nel XIX secolo quando il nuovo pensiero tedesco unificò per la prima volta i vari principati dell’ex Sacro Romano Impero Germanico intorno a un campione dello Stato etico unitario, lo Stato prussiano.
Per converso l’unità d’Italia non si è fatta intorno a un grande progetto filosofico ma a due colonne molto più deboli: un afflato volontaristico ma filosoficamente debole dei mazziniani repubblicani, e l’opportunismo strategico e diplomatico dello Stato sabaudo guidato da Cavour. Cavour riuscì a concentrare pulsioni diverse. Oltre all’afflato mazziniano, c’era la spinta francese di arginare il dominio austriaco sull’Italia, e la spinta inglese di respingere l’influenza russa sull’Italia meridionale.
Si trattava di un’astuta scelta geopolitica che venne portata avanti via via fino al fascismo ma in realtà priva di un pensiero forte. I piemontesi legarono intorno a se tutti i pezzi di Italia lasciandoli in realtà con le loro diverse morali, il loro diverso senso di libertà, la loro diversa cognizione di se stessi. Vennero a patti con i baroni meridionali dividendo con loro il potere, e lo stesso fecero in Toscana, nel Lazio dell’ex Stato pontificio, nel Veneto ex austroungarico. Imposero un sistema doppio: da un lato la morale dello stato, dall’altra la morale del luogo. Fu questa doppia morale il terreno di cultura del consenso/non dissenso per le mafie?
Il fascismo prima e l’immigrazione interna dopo, dagli anni Venti agli anni Sessanta del ‘900, hanno cercato di imporre un nuovo concetto di sé all’Italia. Il tentativo del fascismo aveva due difetti: era astratta ed era imposta, quindi non ha convinto profondamente le classi medie e le fasce intellettuali, le quali alla fine della guerra lo hanno semplicemente respinto.
Negli anni Cinquanta e Sessanta l’immigrazione interna ha mischiato le carte. Ha portato al nord tanti meridionali che si sono acculturati al pensiero settentrionale, ma ha lasciato il meridione separato. I settentrionali non sono emigrati al sud Il meridione non è diventato più italiano, più settentrionale. Inoltre era tutta una questione interna, molto problematica, senza una proiezione in Europa. Ciò anche perché l’Italia, con il più forte partito comunista d’occidente e il peggiore terrorismo del tempo, era terreno di scontro della battaglia tra Usa e Urss.
Il risultato è stato poi che durante la guerra fredda l’Italia ha rinunciato ad avere sia un pensiero forte di sé stessa, sia una politica estera propria, appaltando tutte due agli alleati.
La conseguenza è quella che abbiamo davanti agli occhi: una polverizzazione del pensiero, la mancanza di un sentire comune e un grande disordine nella percezione del futuro stesso del paese.
Certo Berlusconi ha improntato di sé l’Italia degli ultimi vent’anni, oggi però il disordine attuale prova che il pensiero berlusconiano non basta. È stato distruttivo, nel bene o nel male, ma oggi si tratta di ricostruire, e per ricostruire occorrono nuove idee. Berlusconi è ha recentemente definito il ponte sullo Stretto di Messina una “priorità” e il ministro per la Coesione territoriale ed il Mezzogiorno, De Vincenti, ha definito la proposta “interessante”.
Il ponte sullo Stretto può diventare l’occasione per portare l’Italia e il meridione d’Italia in connessione con le nuove dinamiche politiche ed economiche del mondo, integrando il sud. Oppure può diventare l’occasione per distribuire alcuni miliardi alle organizzazioni criminali del sud Italia.
Nel primo caso il mondo e l’Europa aiuterebbero Italia, nel secondo caso l’Italia sarebbe completamente affondata.
Questo, dall’esterno, sembra il punto centrale vero che dovrebbe essere dibattuto. Intorno alla finalità del ponte sullo Stretto, il che vuol dire delle infrastrutture del paese e dell’integrazione italiana nel mondo, dovrebbero concentrarsi il dibattito e la dinamica politica.
Pare però che nessuno in Italia sia preparato ad affrontare temi come questo. In questo caso il ponte sullo Stretto rischia di essere semplicemente un regalo alle criminalità e quindi di affondare definitivamente il paese. Oppure, ancora più italianamente, dopo il voto ci si laverà le mani del ponte, troppo complicato o pericoloso. E come del ponte, di tutte le altre promesse elettorali.