Il presidente designato della Consob, Mario Nava, si sta insediando con qualche ritardo: avrebbe negoziato fino all’ultimo istante con il governo la possibilità di svolgere l’incarico “in distacco” e non “in aspettativa” presso l’Unione Europea. Alla fine l’avrebbe spuntata — con pieno beneficio per il suo pension plan — non prima di aver obbligato la Presidenza del Consiglio a costruire una complessa motivazione giuridica.
Il caso è stato segnalato ieri in prima pagina da Repubblica: la cui redazione ha posto in termini sindacali alla direzione e all’editore il caso del condirettore Tommaso Cerno, candidato per il Pd al prossimo voto politico. Cerno ha lasciato l’incarico presso il quotidiano — era stato nominato da poco più di tre mesi — ma, a quanto si è appreso, avrebbe chiesto all’editore un’aspettativa: in concreto, il reintegro nel grado e nella retribuzione in caso di mancata elezione.
Nomi e cognomi contano relativamente in queste vicende: diverse fra loro ma entrambe interessanti su differenti versanti di costume civile corrente.
Non è affatto uno “scandalo” se un tecnocrate di prima fascia dell’Unione — high rank di lungo corso nella direzione generale servizi finanziari di Bruxelles — valuta tutti gli aspetti di un passaggio professionale personale: anche quando viene chiamato dal governo del suo paese alla guida di un’authority indipendente di profilo massimo come quella che vigila si società e Borsa, seconda solo alla Banca centrale. E’ evidentemente un fatto che i percorsi retributivi e previdenziali della Ue siano attualmente premianti rispetto a quelli dello Stato italiano, formalmente calmierati a 240mila euro all’anno di compenso lordo.
Gli interrogativi, tuttavia, restano. E quello più immediato — perché Nava ha accettato nonostante le incognite di tipo economico — non è forse il più importante. La questione ultima sembra essere questa: un governo di un paese come l’Italia ha individuato in Nava la figura giusta per pilotare la Consob, ma il mix della sua offerta (compenso economico più componenti intangibili come “prestigio”, etc.) non si è rivelato convincente a colpo sicuro.
Dodici anni fa non risulta che Mario Draghi abbia posto alcuna condizione quando venne chiamato al vertice della Banca d’Italia: eppure — non c’è dubbio — il suo compensation package di partner della Goldman Sachs era molto superiore. Nelle stesse settimane di inizio 2006 il capo di Draghi — Hank Paulson — lasciò il vertice di Goldman e andò a pilotare il Tesoro su invito del presidente George Bush, non riuscendo ad evitare poi il collasso della finanza derivata.
Anche in America i tempi, nei rapporti fra finanza e governo, sembrano definitivamente cambiati. Un anno fa Donald Trump aveva offerto al Ceo numero uno di Wall Street, Jamie Dimon di JPMorganChase, il posto di segretario al Tesoro. Ma — politica a parte — Dimon avrebbe dovuto anzitutto rinunciare a redditi annuali a cinque zeri. Nell’amministrazione di Washington sono così stati “distaccati” il numero due di Goldmans Sachs, Gary Cohn, e un “aggregato” di medio grado alla stessa Goldman come Steve Mnuchin. I cervelli di Wall Street — come quelli della Silicon Valley — sono sempre meno pronti a “servire il loro Paese”: eppure è passato appena mezzo secolo da quando alla Casa Bianca di JFK c’erano i best and brightest, il meglio degli Usa.
Il caso del tecnocrate italiano di Bruxelles che fa i conti su stipendio e pensione, dunque, scolora fino all’innocenza di fronte a un tema di democrazia sostanziale: come arruolare un “cane da guardia” veramente competitivo di fronte agli “animali selvaggi” dei mercati finanziari? Lo stalliere del re — recitava un antico adagio — deve conoscere a fondo le abitudini di tutti i ladri di cavalli del regno. Un modo elegante per riconoscere che quel ruolo può forse essere ricoperto con efficacia solo da un brillante “ladro di cavalli” convertito in qualche modo alla causa del re.
Neppure il caso dei giornalisti “comunicanti” con il Parlamento è così clamoroso. La storia dell’Italia unita ne è piena: il premier tuttora più longevo — Benito Mussolini — di mestiere era direttore di quotidiani, dall’Avanti al Popolo d’Italia. E’ stato giornalista il primo premier non democristiano della Repubblica, Giovanni Spadolini. Ma anche Eugenio Scalfari cercò e trovò l’immunità parlamentare nelle liste Psi prima di fondare Repubblica. Sono stati direttori dell’Unità Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Giuliano Ferrara è stato ministro nel Berlusconi I, mentre Gianni Letta è giunto ad essere candidato alla presidenza della Repubblica. Giulio Andreotti, sette volte premier, fu il publisher ininterrotto di un giornale personale, Concretezza.
E’ per molti versi la normalità che in Italia alcuni giornalisti proseguano il loro impegno civile in politica. Però Spadolini fu candidato dal Pri dopo essere stato licenziato in tronco dal Corriere della Sera, che la contessa Giulia Maria Crespi voleva rischierare a sinistra: no way back. Mussolini, invece, vendette a un industriale milanese la proprietà del Popolo poche ore prima di lasciare Milano negli ultimi giorni dell’aprile 1945. Anche lui sapeva che per la sua “avventura umana” non c’era via di ritorno a un tavolo di redazione.