Domenica 11 febbraio, nel corso del programma “In mezz’ora” su RaiTre, Silvio Berlusconi ha dichiarato: “Cottarelli è il primo nome” per il futuro governo di centrodestra, “gli proporrò il ministero per la Spending review: non so se lui ci dirà di sì, ma ha le caratteristiche che noi cerchiamo: è una persona valida, uno studioso con tanta esperienza internazionale e parte avvantaggiato perché ha già un piano” per ridurre la spesa pubblica. “Gli daremo il potere di effettuare i tagli che ha individuato”.



Ieri mattina, davanti al Consiglio generale della Confcommercio, riunito a Milano per presentare le proprie proposte ai partiti politici, il leader di Forza Italia ha confermato: “Ho sentito Carlo Cottarelli e si è dichiarato disponibile, sarà uno di quelli che sarà nella nostra squadra di governo”, alla guida di un ministero per la spending review. Poi, nel primo pomeriggio, Cottarelli ha precisato: “Ringrazio i partiti che mi hanno contattato, tuttavia la partecipazione ad un’attività di governo richiede la condivisione dei programmi concreti sulle cose da fare. Tale condivisione non può avvenire che dopo le elezioni. Vorrei quindi chiarire di non aver dato la mia disponibilità a nessuno schieramento a partecipare in qualunque forma a un futuro governo”.



Intanto, sempre domenica scorsa, l’ex commissario – nominato da Letta e prima confermato, poi accantonato da Renzi – è stato intervistato da Avvenire, in qualità di attuale direttore dell’Osservatorio conti pubblici dell’Università Cattolica. Cottarelli, da un lato, ha stigmatizzato sul fatto che in questa campagna elettorale “in via generale, le promesse sono più ampie del passato. Di “sparate” ne ho sentite proprio tante, e grosse, su numeri e su misure”, e a colpirlo sono anche “la loro vaghezza e contraddittorietà”. Alla domanda, poi, “Lei quale consiglio darebbe ai partiti?” risponde così: “Io farei una proposta: una legge che, dalle prossime elezioni, dica che ogni partito è obbligato, pena l’esclusione, a depositare insieme al programma un documento in cui si indica – misura per misura – il costo delle proposte fatte, l’obiettivo di deficit e debito pubblico per ciascuno dei 5 anni successivi, il totale della spesa e delle entrate che si prefiggono. In modo tale che i cittadini ci capiscano qualcosa”.



Insomma, una sorta di “Def elettorale”. Utile non solo a far capire alla gente le poste in palio, ma anche a non aggravare un contesto generale che va attentamente e costantemente monitorato. Il nostro Paese è gravato da un debito pubblico di 2.275 miliardi (dato Istat aggiornato a novembre 2017; la stima sull’intero anno verrà pubblicata proprio domani), il che significa che sulla testa di ciascun italiano pende una “cambiale” di oltre 40.000 euro; dal 2000 a oggi il debito pubblico aggiuntivo è stato di poco inferiore ai mille miliardi; la spesa pubblica viaggia costantemente sopra gli 800 miliardi all’anno (ed è prevista ancora in crescita); la pressione fiscale resta tra le più alte dei paesi Ocse, ma il livello di servizi e prestazioni ai cittadini non è certo paragonabile ai Paesi benchmark per qualità ed efficienza. Senza contare che in certi ambiti i risparmi sono stati ottenuti soprattutto con tagli lineari, non certo con un oculato efficientamento della spesa (il che è anche il vero compito della spending review).

La proposta di Cottarelli andrebbe, dunque, presa sul serio. Vero è che un conto è la campagna elettorale, quel territorio dei sogni, delle promesse, dei proclami che, come gli imbonitori di elisir miracolistici nel vecchio West, servono a catturare l’attenzione degli uditori (cioè degli elettori). Altro conto, poi, è poter mantenere quelle promesse, soprattutto in tempi di fact checking, quella sorta di mega-Var che “rivede” al rallentatore programmi e relativi costi.

Come sappiamo, la campagna elettorale è partita coi botti, poi si è data una calmata perché le segreterie dei partiti sono state impegnate nella stesura delle liste, ma negli ultimi giorni sono ripresi i fuochi pirotecnici. Proviamo a mettere in fila qualche numero. Un calcolo, spannometrico, su quante risorse occorrerebbero per coprire gli impegni annunciati ai quattro venti – introduzione della flat tax, abolizione della legge Fornero o del canone Rai, adeguamento delle pensioni minime, redditi di dignità o di cittadinanza, per citarne i più eclatanti – arriva a superare abbondantemente i 100 miliardi di euro. Secondo uno studio, pubblicato un mese fa da Credit Suisse, il “tesoretto” necessario oscillerebbe tra i 104 e i 130 miliardi. Un esborso pari al 6-8% del Pil.

Dove pescarli? Facile dire dalla lotta all’evasione e dai tagli di spesa. Anche qui, fatti due conti della serva, è vero che il 2017 è stato un anno record per il contrasto all’evasione fiscale (recuperati 20,1 miliardi di euro, con un aumento del 5,8% rispetto al 2016), mentre i tagli alla spesa – come riportato dal Sole 24 Ore, compulsando l’ultima relazione del commissario Yoram Gutgeld – “nel periodo 2014–2018, sotto i governi Renzi e Gentiloni, hanno prodotto un “effetto spending” per quasi 35 miliardi, seppure quasi in toto redistribuiti per alimentare le misure espansive varate dai due esecutivi (da quelle in chiave occupazione al bonus degli 80 euro)”. Per chiudere il cerchio, insomma, servirebbe ben altro sforzo finanziario.

Ma come ha più volte ammesso pubblicamente lo stesso Cottarelli, all’epoca in cui ricopriva il ruolo di commissario alla spending review, “non facevo parte della macchina della pubblica amministrazione, per cui certe informazioni non mi arrivavano e certi disegni di legge non mi venivano fatti vedere prima. Mentre ero lì che cercavo di tagliare la spesa, passavano provvedimenti che la aumentavano”. Ricorda molto il brano evangelico del “non sappia la mano sinistra quel che fa la destra” (ma in quel caso si predicava l’umiltà nel fare l’elemosina, non certo la disinvoltura nel giocare con i soldi pubblici).

I soldi pubblici, appunto. Parafrasando una vecchia pubblicità di Carosello, “no, sui soldi pubblici non si può” scherzare. Perché oggi più di ieri vale la vecchia lezione della Lady di ferro. Sì, Margaret Thatcher, che in un discorso al Partito conservatore nel 1983, così si esprimeva: “Uno dei grandi dibattiti del nostro tempo riguarda quanto del vostro denaro dovrebbe essere speso dallo Stato, e quanto invece dovrebbe essere risparmiato e speso dalle vostre famiglie. Fate in modo di tenere a mente questa verità fondamentale: lo Stato non ha altra fonte di reddito se non i soldi che i cittadini guadagnano. Se lo Stato vuole spendere di più può farlo solo intaccando i vostri risparmi o tassandovi di più. Ed è inutile illudersi che qualcun altro pagherà il conto, perché quel “qualcun altro” siete voi. Non esistono i soldi pubblici, esistono solo i soldi che i contribuenti danno al settore pubblico. La prosperità non si realizza inventandosi sempre più programmi scialacquatori di spesa pubblica. Non si diventa più ricchi ordinando un nuovo libretto degli assegni in banca. Nessuna nazione è mai cresciuta tassando i propri cittadini oltre la loro capacità di pagare. Abbiamo il dovere di assicurare che ogni penny di ulteriore tassazione sia utilizzato in modo saggio e opportuno. […] Proteggere il portafogli del contribuente e proteggere il servizio pubblico sono i nostri obiettivi principali, e queste due esigenze devono essere conciliate. Sarebbe davvero piacevole e popolare poter dire “si spenda di più su questo, si espanda su quest’altro”. Abbiamo tutti delle cause e delle ragioni che ci stanno a cuore, lo so bene. Ma non si può evitare di far tornare i conti. Ogni attività economica lo deve fare, ogni casalinga lo deve fare, e ogni Governo dovrebbe farlo”.