Il duca di Kent, cugino in saecula saeculorum di sua maestà britannica la Regina Elisabetta II, è letteralmente sconvolto, anche se maschera tutto con classe nobiliare.

Il duca di Kent è il “grande maestro” della massoneria universale e ha saputo da un cameriere del suo club, mentre finiva il pranzo con un pessimo pudding, che un tale avvocato italiano, il “fratello” Catello Vitellio (ma siamo sicuri che non sia un soprannome?), iscritto alla famosa loggia “La sfinge” ha cercato di presentarsi nelle liste del M5s di Luigino Di Maio alle prossime elezioni italiane.



Secondo stile british, il duca di Kent non ha commentato, ma ha solo confidato qualche pensiero che gli suggeriva il pessimo pudding: questo Catello va ai pranzi del Bilderberg, come Emma Bonino, Lilli Gruber, Mario Monti e compagnia cantante, oppure mangia alla Trattoria della Sora Lella? La consorteria indagherà attraverso “fratelli” sicuri di esperienza internazionale.



Ma il  “fratello” Catello Vitellio è in fondo la punta di un iceberg nell’universo in subbuglio della famosa “società civile” grillina, nel racconto italiano ormai tragicomico di queste elezioni che richiamano soprattutto il “Vota Antonio” di Totò piuttosto che i confronti delle antiche democrazie rappresentative.

Il problema è che Vitellio fa parte di uno scenario da rissa grillina tra scontrini, massoni appunto, e pure botte, a quanto sembra, perché secondo i rendiconti nei “traffici” di bonifici bancari, la famosa restituzione di alcune competenze (chiamiamole così) dei quattrini elargiti ai grillini, è sparito dal conto complessivo  un bel pezzo di “conquibus”: esattamente un milione e 400mila euro secondo la notizia di ieri, ufficiale, dopo giorni di conteggi convulsi, in cui c’era chi si scusava, chi si auto-sospendeva dalle liste, chi veniva rimbrottato da Di Maio, che ha saputo che a Londra le casseforti dei Fondi visitati recentemente hanno cambiato combinazione per una discutibile e impossibile insicurezza.



Il fatto è che la “force de frappe” grillina, quella che doveva “aprire le scatole di tonno” in Parlamento, si è scoperta ricca di pasticcioni e di qualcuno che dice bugie e magari ci marcia anche. Dovevano alimentare soprattutto il microcredito per le piccole imprese, ma improvvisamente manca un milione e mezzo di euro, cioè tre miliardi di vecchie lire. Luigino Di Maio, piuttosto sconvolto e preso in contropiede, ha sentenziato: “Cacceremo le mele marce”. Ma intanto i casi, su cui il M5s si arrovella, sono dieci in tutto e anche il Corriere della Sera, celebre testata italiana che un tempo vendeva anche un milione di copie, mentre oggi è letto dai parenti dei giornalisti, deve titolare in prima come “nerone”: “M5s, un buco da 1,4 milioni”. 

Ma nell’occhiello del titolone, dopo Di Maio, gli “architetti” (non tutti massoni) de La casta, che pare avere avuto grande successo ma promette la fine di “Italo”, mettono in pista anche il segretario del Partito democratico, Matteo Renzi, famoso per il suo equilibrio, le sue promesse che vanno di pari passo a quelle di Silvio Berlusconi e soprattutto il suo spiccato senso storico. A Di Maio che parla di “mele marce”, Renzi replica con una battuta a effetto ritardato: è come Craxi quando parlò del “mariuolo” Chiesa. 

In fondo Renzi non dice nulla di nuovo, si allinea, come in tutte le superficialità storiche, al giudizio del “pensiero unico” scoperto dal famoso Di Pietro-Clouseau (quest’ultimo è il famoso ispettore francese di una serie di film di Blake Edwards. Si diceva di lui: al suo confronto Attila era una “dama di San Vincenzo”).

Renzi ha bisogno di tutti i voti possibili, in una tornata elettorale per lui rischiosissima. Quindi va bene Di Pietro-Clouseau e i suoi ormai “nostalgici” giustizieri, va bene dimenticare l’amnistia del 1989 sui bilanci dei partiti, va bene cancellare il ricordo di Craxi e il suo periodo storico, va bene che Chiesa nascondesse nel cesso 7 milioni di lire (3500 euro), mentre qui si parla di un milione e 400mila euro con partiti indebitati che non riescono neppure ad assicurare un finanziamento pubblico, tipico delle democrazie parlamentari dall’Ottocento, da quando non restarono solo i nobili a fare politica, da coniugare con un finanziamento privato trasparente. E questo dopo 25 anni dall’episodio di Mario Chiesa e di tutta “tangentopoli”.

Se Catello Vitiello ha sconvolto solo in senso british il duca di Kent, si dice che nella parte cristiana del cimitero di Hammamet dove è sepolto Craxi ci siano state alcune “scossette di terremoto”. Non tanto per tutta la vicenda scombinata dei quattrini, quanto perché il “Faraone”, vecchio soprannome di Craxi, non tollererebbe di essere paragonato al giovane e “sempre valido” Luigino Di Maio.

E’ evidente che tutta questa vicenda svela una commedia tragicomica, come abbiamo già detto, ma soprattutto una malinconia ironica, senza fine. Secondo i sondaggi, che varranno quello che valgono ma indicano sempre una tendenza, ci sarebbero i diciottenni al loro primo voto orientati a non andare alle urne in una percentuale tra il 50 e il 70 per cento. Le ultime rivelazioni stimano l’area dell’abbandono al voto di poco superiore al 30 per cento. 

Ma i sondaggisti osservano che le percentuali mutano con impressionante  facilità, spesso da una giornata all’altra, come se l’elettorato percepisse l’umore del contesto quotidiano. E’ un fatto che non si è mai verificato. Ma, del resto, come può orientarsi un elettore di fronte alla confusione (parola abusata, ma se qualcuno trova di meglio lo faccia) di esponenti di partito che per anni hanno gridato “onestà, onestà” e alla fine devono registrare conti “sbagliati” e “mele marce”? Come può il segretario “rottamatore” far quadrare il segretario socialista, Bettino Craxi, nel duplice ricordo di morto ufficialmente per la famosa giustizia italiana come latitante e per lo Stato invece degno dei funerali d’onore? Un enigma tutto italiano che il sedicente “garantista” Matteo Renzi si guarda bene dallo spiegare, come tanti altri smemorati della repubblica, seconda, terza o forse quarta, se ci sarà ancora la Repubblica.

Non si creda che passando da una partecipazione di più dell’80 per cento al voto a una partecipazione molto più bassa non cambi nulla. Ogni paese ha la sua storia che va rispettata e migliorata, aggiornata, ma la base della democrazia italiana è sempre stata la grande articolazione partecipata, dove avevano il loro ruolo diversi corpi intermedi, che oggi pure loro sembrano scettici sulla validità di un voto a scarto ridotto.

Diventa, alla luce di tutti questi fatti, quasi inquietante pensare alle possibilità di un minimo di stabilità dopo il voto del 4 marzo. C’è da augurarselo, magari risparmiandosi le grandi sceneggiate di questi giorni di fronte alle tragedie e i nuovi “Vota Antonio” di questo sfortunato presente, interpretati con nuove e patetiche immagini: da “onestà, onestà” a “Di Maio come Craxi”.