Le elezioni del 4 marzo dovrebbero essere tra le più importanti della storia repubblicana. C’è, però, il rischio — sempre che i sondaggi abbiano un minimo di affidabilità — che possano sancire l’ingovernabilità del nostro paese.
Vorrei segnalare due aspetti che potrebbero contribuire ad avvelenare le reazioni dell’opinione pubblica e indurre a comportamenti sociali irresponsabili e anche violenti. Il primo riguarda il centrodestra, il secondo il Movimento 5 Stelle.
La coalizione messa insieme da Berlusconi è certamente di natura elettorale, si potrebbe dire anche elettoralistica. Infatti non è un mistero che al proprio interno giustapponga divergenze e dissensi non facilmente componibili. Non si può escludere che dopo il 4 marzo la Lega di Matteo Salvini si distacchi o renda assai ardua la convivenza in una maggioranza di governo. Questo è certamente un problema. Ma esso non può essere confuso con quanto ad ogni piè sospinto dichiarano Pier Luigi Bersani e Il Fatto Quotidiano, cioè che il polo moderato italiano, se vincesse a discapito del centro-sinistra, sarebbe un vero e proprio pericolo per la democrazia e per le condizioni di vita dei lavoratori. Tale argomento è semplicemente infondato. Costituisce, anzi, una vera e propria forzatura elettoralistica. Davvero, se avesse un consistente seguito tra gli elettori, la coalizione guidata da Berlusconi potrebbe mettere a repentaglio la pacifica manifestazione di opinioni politiche diverse, che in un regime democratico sono fisiologiche? Questo non si è verificato in passato, anche se la sinistra di ogni rango, colore ed etnia lo ha gridato per circa 18 anni. E non rinuncia alle sue ossessioni neanche dopo la “certificazione” che la cacciata di Berlusconi nel 2011 avvenne per un colpo di mano ordito anche da paesi europei.
Credo che questo modo di colpevolizzare i propri avversari corrisponda alla pessima abitudine della sinistra di alzare o abbassare l’asticella sulla democraticità dei propri competitori. Da Togliatti a Berlinguer è stata una regola trattarli per provocatori, anarchici o terroristi se erano di estrema sinistra. Se sono dei moderati invece li si è sempre dipinti come fascisti o manutengoli degli Stati Uniti.
In realtà, le ossessioni di Bersani sono il segno di chi sente su se stesso l’approssimarsi di un’ulteriore grande sconfitta. Ma contengono anche qualcosa di più. Si sta sfarinando, insieme, l’illusione che i partiti siano giocattoli che si possono rompere e rimontare come fossero un meccano.
Di fronte a tutto ciò mi pare opportuno ricordare che l’opinione pubblica di sinistra (quella maggioritaria che si riconosce in Repubblica e in Eugenio Scalfari), ha condiviso l’idea che un’alleanza tra il Pd e Forza Italia sia preferibile ad un’alleanza tra Pd e 5 Stelle.
Dunque, Berlusconi e i suoi alleati di ieri e di oggi avranno pure governato male; questo sospetto è più fondato quando si assiste alla riproposizione dopo circa vent’anni delle stesse proposte e anche delle stesse ricette un po’ meglio agghindate come si fa per le tasse.
La novità è un’altra. Rispetto a chi suona la campana a morto del nostro regime democratico, come fanno gli attempati giovinastri di Liberi e uguali, una parte dei riformisti italiani sta da un’altra parte. Non considera Berlusconi quel pericoloso affossatore del regime democratico che Bersani ama evocare. Il fatto è che nell’ex ministro persiste un tipico malvezzo dei comunisti, la tendenza a trasformare gli avversari in nemici. Ma questo spartito — gridare al lupo al lupo di fronte all’eventuale successo di FI, Lega e Fratelli d’Italia —, suonato nelle sue varianti per tutto il dopoguerra, ha una sola spiegazione: l’incapacità della sinistra di governare il passaggio di generazione, anzi di civiltà, che stiamo vivendo.
Bersani, D’Alema e i loro amici sono responsabili di avere preferito un’ulteriore frantumazione della sinistra piuttosto che convivere col piccolo Bonaparte di Rignano. Bisogna ammetterlo, la coabitazione con Renzi non è una cosa facile né gradevole. Come dicono a Roma, quando lo si incontra è meglio girare per strada con una mano davanti e una dietro. Ma Renzi, questo suo caratteraccio e questa sua smodata passione per inchiappettare (come diciamo a Bologna) amici ed alleati è un aspetto del difficile cambiamento che sta avvenendo nella società italiana e nelle formazioni politiche. Renzi incarna macroscopicamente un modo di fare politica molto diverso dal passato, ma purtroppo anche molto diffuso. E’ un uomo di potere costi-quel-che-costi, legato ad amicizie in cui non entra mai il valore del merito e della competenza.
Bersani e i suoi compagni dovrebbero provare a convincere gli elettori che essi sono di una pasta diversa. Dicono di essere una sinistra di governo. E’ difficile dare loro torto. Ma questo significa qualcosa di diverso dal fatto che per conquistare il Palazzo intendono continuare a servirsi dell’occupazione partitocratica delle istituzioni? Vogliono per caso contenere e cercare di ridurre al minimo la presenza dello Stato in ogni consiglio d’amministrazione di banche, assicurazioni, istituti culturali, organi professionali, confraternite, associazioni eccetera? Oppure, enfatizzando la loro presunzione di essere “diversi”, intendono vigilare perché la superfetazione della presenza pubblica nella vita privata delle imprese e delle professioni non venga meno e, se fosse possibile, si estenda ancor di più?
Il segnale lo ha dato Pietro Grasso, ed è nettissimo. Appena nominato segretario del pargolo nato dall’ennesima scissione nel campo della sinistra, invece di dimettersi dalla carica di presidente del Senato se l’è tenuta ben stretta. Certamente Renzi è un partitocrate e non ha neanche un briciolo della cultura né del liberalsocialismo e neanche di quella liberale classica. Ma anche Bersani a suo tempo ha messo il freno sulla politica dell’estensione delle liberalizzazioni. Come ministro ha ingolfato il mercato delle transazioni edilizie di rendite puramente speculative. Per comprare un alloggio, grazie a lui si deve versare circa il 6 per cento (quando va bene) del valore all’agenzia.
Prima di raccontare la triste menzogna secondo cui Berlusconi, Salvini e Meloni sarebbero le controfigure italiane di Trump e Le Pen, bisognerebbe avere il buon gusto di leggere le analisi degli intellettuali di sinistra non trinariciuti, per esempio quanto scrivono Luca Ricolfi e Nicola Rossi sul Messaggero e nel blog della Fondazione Hume.
In secondo luogo, è falso sostenere che se la sinistra venisse randellata alle elezioni avremmo le porte spalancate al fascismo. Bersani dovrebbe chiedere ai suoi collaboratori qualche saggio dignitoso di storia delle origini del fascismo. Gli consiglio i primi che mi vengono in mente, quelli del mio collega Emilio Gentile o di Roberto Vivarelli, se ha qualche timore di accostarsi a Renzo De Felice. Oppure scorra la ricostruzione di Pietro Neglie, Fratelli in camicia nera del 1996. L’ascesa al potere di Mussolini avvenne per l’incapacità dei partiti di ispirazione liberale, dei popolari di Sturzo, dei socialisti e dei (pochissimi) comunisti di superare resistenze, idiosincrasie e ideologismi contrapposti. Di fronte al montare della violenza (non ci fu solo lo squadrismo fascista) non si riuscì a dare vita ad un governo capace di isolare e fare un argine, con ogni possibile metodo, all’estremismo rivoluzionario della sinistra del Psi e dei comunisti.
Il fascismo delle origini (che si ama chiamare “diciannovismo” o “sansepolcrismo”) ebbe un programma rigorosamente di sinistra e anticlericale. Se Bersani ne vuole una prova, sfogli la rivista teorica dei comunisti Stato Operaio. Vi troverà, nell’agosto 1936, appena dopo la conquista dell’Etiopia, L’appello ai fratelli in camicia nera. Il testo fu firmato da Palmiro Togliatti e da oltre sessanta dirigenti del PCdI, usando il proprio nome e non lo pseudonimo. Vi veniva richiamato il programma dei Fasci di combattimento del 23 marzo del 1919, elaborato da Mussolini col supporto di sindacalisti rivoluzionari, socialisti interventisti, anarchici, futuristi. Era l’autorevole riconoscimento della natura di sinistra, cioè rivoluzionaria, delle posizioni del fascismo delle origini. Al punto tale da esortarli a fare fronte comune contro i capitalisti, vecchi governanti, nazionalisti, imperialisti eccetera. E la Repubblica Sociale Italiana (1943-1945) nacque riallacciandosi a questo programma di sinistra di Mussolini.
Purtroppo, sono le asprezze, il duro ideologismo, la scarsa capacità di fare alleanze e di governare dei partiti del movimento operaio italiano ad avere lastricato la strada del successo all’estrema destra. Quella brutta di cui non solo Bersani, ma anche io e penso tutti noi avremmo una grande paura. Fortunatamente non ce n’è la minima traccia nei partiti che si contendono l’esito del 4 marzo, e neanche nelle posizioni della Confindustria.
Inutile, dunque, cari D’Alema, Bersani, Grasso, Boldrini, dare corpo ai fantasmi. Purtroppo, anche grazie al vostro nuovo partito non saremo né liberi né uguali.