“Lo scenario peggiore”. Sono le parole, da più parti giudicate un colpo di testa, che ieri il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker ha usato per definire il dopo voto in Italia. Due i messaggi di Juncker. Il primo riguarda il fatto che nel nostro paese potrebbe non esserci “nessun governo operativo” dopo il 4 marzo. L’altra preoccupazione riguarderebbe “una forte reazione dei mercati” legata all’esito del voto e alla conseguente instabilità. Gentiloni gli ha risposto che non ci sarà alcun salto nel buio, ma la sortita di Juncker ha spaventato le Borse, che hanno chiuso in ribasso. “A Bruxelles — spiega l’economista Massimo D’Antoni — si sono accorti che dal voto potrebbe non uscire una maggioranza netta ed esprimono preoccupazione. Però potrebbe essere stata semplicemente un’uscita infelice, anche dal loro punto di vista”.



Perché, professore?

Ho letto che proprio Emma Bonino, leader di +Europa, con la quale Juncker dovrebbe avere una sorta di asse privilegiato, lo ha rintuzzato su questo punto, ribadendo che in questo modo si rischia di dare agli elettori l’impressione che l’esito sia scontato.

Dovrebbe esserci pure un asse tra Bruxelles e Napolitano, che ha definito Gentiloni “essenziale per la stabilità”. Le garanzie fornite dall’ex presidente non bastano più?



L’esito di queste elezioni si preannuncia per certi versi paradossale. Da un lato ci sono le coalizioni, un espediente per massimizzare l’esito sui collegi uninominali e andare allo spareggio tra le maggiori forze politiche. Dall’altro incombono le larghe intese. E più vengono negate a parole, più appaiono uno sbocco probabile. Vorrebbe dire rottura delle coalizioni indicate prima del voto per farne un’altra, diversa, di governo.

Un governo di larghe intese in linea con le politiche europee. Dunque a Bruxelles si teme uno scenario spagnolo?

Può darsi. La Spagna è rimasta più di un anno senza governo. Ma la cosa più paradossale è che questo alla fine non è stato un dramma per la Spagna, visto che in quell’anno è stata concessa molta più flessibilità a Madrid, cui è stata risparmiata la sanzione per la ripetuta infrazione del limite del 3% del deficit, che a Roma, dove c’era un governo nei pieni poteri che ha ottenuto solo margini minimi di manovra. 



Poi Juncker ha sparso pessimismo anche sul fatidico versante dei mercati. Le sembra un’operazione sensata?

Ecco, quella è la parte più inquietante della dichiarazione. Sappiamo che i mercati finanziari spesso agiscono in modo erratico e possono dar luogo a fughe di capitali sull’onda del pessimismo, in questo caso rispetto alla solvibilità del paese. Ma sappiamo anche che un’azione decisa della banca centrale può modificare rapidamente le aspettative e troncare ogni manovra speculativa. 

Si riferisce alla dichiarazione di Mario Draghi nel luglio 2012?

Esattamente. L’andamento degli spread aveva funzionato nel 2011 come strumento di pressione, fino al punto di determinare le dimissioni del governo Berlusconi e la sua sostituzione con il governo Monti. Nei mesi successivi lo spread fu usato come termometro della buona politica, per suggellare la “bontà” delle riforme, a cominciare dalla riforma Fornero. Però nel luglio 2012 bastò una dichiarazione netta da parte del presidente della Bce per riportare gli spread a valori fisiologici. Se fossi Juncker quindi starei attento a usare questo argomento. La sua dichiarazione potrebbe essere presa come un’indicazione del fatto che questa volta la Bce potrebbe non intervenire, magari per rendere più pressante la necessità di un governo di emergenza nazionale. 

Insomma, un’ingerenza politica.

Con ogni probabilità Juncker ha voluto sollecitare l’Italia a produrre certezza, usando come spauracchio l’incertezza e l’ingovernabilità. Un messaggio agli elettori perché decidano nel modo giusto. Giusto secondo Bruxelles, s’intende.

Ma è una strategia efficace?

Ne dubito. Questa volta ho la sensazione che negli elettori e nei politici ci sia molta meno ingenuità rispetto al 2011.

Forza Italia e Pd sono pronti a formare un governo di larghe intese di impronta liberal-europeista o europeo-liberista e potrebbero non essere le uniche forze a prendervi parte. L’ipotesi però non piace a Salvini e scontenta una parte della sinistra. Non trova che proprio a sinistra ci sia una grande contraddizione su questo punto?

Il problema c’è, ed è particolarmente avvertito in quella parte della sinistra che non si riconosce più nel Pd. Negli ultimi decenni a sinistra si è fermamente creduto nell’europeismo, associandolo all’idea di un modello sociale caratterizzato da elevata protezione sociale, diritti, tutele. Il problema è trovarsi a difendere astrattamente il progetto europeo proprio quando esso impone l’abbandono di quel modello sociale e sembra lasciare spazio solo a politiche di impronta liberista, quali la deregolamentazione del lavoro, la riduzione del welfare e così via.

A proposito di lavoro: la recente vicenda Embraco parla chiaro.

Sì, quella vicenda rivela un nervo scoperto. Da un lato nessuno a sinistra può accettare che si chiuda un’impresa qui per riaprirla in Slovacchia con salari che sono la metà o un terzo dei nostri. Dall’altro, il trasloco dell’Embraco è del tutto coerente con i principi del mercato unico. Nel momento in cui si accetta il principio della piena mobilità dei beni e dei fattori, vengono a mancare anche gli strumento concettuali per opporsi. Al limite si contesta il fatto che la Slovacchia possa aver usato i fondi strutturali e violato la normativa sugli aiuti di Stato, ma è chiaro che il tema è ben più ampio; è la convivenza nello stesso mercato di aree caratterizzate da differenze così marcate di salario. Il fatto è che il mercato unico si basa sull’idea che questo tipo di concorrenza sia virtuosa.

Quindi un politico di sinistra che volesse realmente difendere il lavoro dovrebbe contestare il mercato unico e le regole che lo governano.

E’ così. “Più integrazione”, come auspicano Romano Prodi e con lui molti altri, vorrebbe dire adottare regole comuni, ma non credo che questo sia un aspetto così decisivo; o forse si immaginano meccanismi di solidarietà simili a quelli che si hanno nel caso di uno Stato, che può operare delle compensazioni a fronte di una delocalizzazione che avviene entro i suoi confini, come se avvenisse dal Veneto alla Calabria. Ma se anche fosse possibile ottenere in tempi rapidi una simile evoluzione, farei fatica a immaginare una compensazione per un’impresa che spostasse la sua produzione da una zona ad alto reddito (come ancora è l’Italia) a una a reddito molto più basso come la Slovacchia. Anzi, qualcuno potrebbe argomentare che questo trasferimento ha effetti perequativi.

Questo stato di cose quanti italiani scontenterà nelle urne?

Vedo una larga fascia di scontenti che si dividono tra quelli che pensano che comunque il voto non cambierà nulla e per questo si asterranno, e quelli che sono disposti a votare qualunque opzione che sia “contro”, cioè che possa far saltare i giochi. La Brexit e il voto per Trump sono stati anche e soprattutto questo. Non è un discorso solo europeo, è legato alla globalizzazione e coinvolge coloro che da essa si sentono danneggiati.

E secondo lei chi riuscirà ad intercettare meglio il voto di protesta? La sinistra o la destra?

La sinistra non mi sembra che ci stia riuscendo, e lo dico con rammarico. Liberi e uguali stenta a trasmettere un profilo di discontinuità rispetto all’eredità del centrosinistra, e le formazioni di sinistra più radicale sono percepite come troppo identitarie e marginali. Restano i 5 Stelle, che però mi sembrano in una fase di stanchezza e stanno dando segnali contraddittori, e la Lega, che invece potrebbe dare sorprese.

(Federico Ferraù)