Potrebbe chiamarsi “Young Act” il primo provvedimento che un futuro governo di centrodestra metterà in campo. Parola di Silvio Berlusconi. “Un provvedimento – ha dichiarato a Corriere Tv il leader di Forza Italia – per combattere la disoccupazione giovanile, soprattutto al Sud. Proponiamo una decontribuzione e una detassazione per le aziende che assumono giovani disoccupati: per tre anni di apprendistato e per tre anni di effettiva assunzione. Sei anni in cui il costo del lavoro è solo quello dello stipendio pagato al lavoratore”. Un intervento per cercare di porre rimedio a un tasso di disoccupazione giovanile che vede l’Italia tra le “pecore nere” della Ue.



“Ma non è l’unica questione giovanile con cui il nostro Paese deve fare i conti” osserva Michele Pasqualotto, responsabile del centro di ricerca Datagiovani. “Sono tanti i gap che gli under 35 vivono in Italia, specie nel confronto con gli over 50. Dal mercato del lavoro all’indipendenza abitativa, negli ultimi quarant’anni la situazione dei giovani è andata progressivamente peggiorando. E oggi, specie per quanto riguarda i tassi di disoccupazione e di occupazione, la precarietà retributiva, il numero di Neet, cioè di giovani sfiduciati che non studiano né lavorano, il nostro Paese è tra i fanalini di coda della Ue. Certo, le scelte della politica e gli strumenti messi in campo, da Garanzia giovani alle politiche attive, non aiutano a vincere questi gap e lo scoraggiamento generale. Ma i giovani stessi, che val la pena ricordare sono la generazione più istruita di sempre, devono darsi una mossa per vincere questa sfiducia”.



Partiamo dal mercato del lavoro. L’Italia, rispetto agli altri Paesi Ue, è messa peggio?

Direi proprio di sì. In termini assoluti, negli indicatori del mercato del lavoro l’Italia è agli ultimi posti. Prendiamo, per esempio, il tasso di occupazione: dal 2008 al 2017 in Italia è sceso di quasi 9 punti percentuali tra gli under 30 e in Europa solo di 2 punti. Siamo penalizzati anche nel cosiddetto age gap, cioè nel rapporto tra under 30 e over 50, che misura le differenze in termini di tasso di occupazione, tasso di disoccupazione, precarietà contributiva. In questi ambiti l’Italia fa registrare i risultati peggiori. Insomma, per i giovani è sempre più difficile e lungo raggiungere le condizioni migliori.



Un trend in costante peggioramento negli ultimi 40 anni, vero?

I numeri parlano da soli. Negli anni 70 in Italia il 25% della popolazione aveva meno di 35 anni, per ogni anziano c’erano due giovani, la disoccupazione era quasi inesistente, visto che sei giovani su dieci tra i 25 e i 34 anni avevano un lavoro, ci si sposava presto e tra imprenditori e amministratori il 22% era formato da giovani. Oggi invece abbiamo tre anziani ogni due giovani, il 60% dei giovani vive in casa fino a 35 anni, ci si sposa sempre più tardi, tra gli under 25 il 70% non cerca lavoro, la disoccupazione è oltre il 30%, la presenza dei giovani nei posti che contano si è più che dimezzata, così come la quota di quelli che arrivano all’indipendenza abitativa. Oggi l’età media di uscita di casa degli italiani è di 30,1 anni, valore che ci pone al quart’ultimo posto in Europa, dove la media è di 26,1 anni, ma ci sono Paesi, come la Svezia, in cui si abbassa fino a 20,7 anni. E va ancora peggio se si considerano quanti giovani vivono almeno con un genitore: con il 65,4% di under 35 che vivono ancora in casa siamo al quint’ultimo posto tra i 28 Paesi Ue. La media europea è pari a poco più del 47%. 

In Italia, poi, abbiamo il record assoluto di Neet, cioè giovani che non studiano né lavorano. Come mai è così diffusa la sfiducia?

Più che sfiducia è mancanza di strumenti adeguati per entrare nel mercato del lavoro. I problemi esistevano già dieci anni fa, ma li abbiamo colpevolmente nascosti come la polvere sotto il tappeto. Poi la crisi del 2008 ha acuito questi nodi. Prendiamo il caso dei centri per l’impiego: non funzionano. A questi centri si rivolge solo il 10-15% dei giovani italiani contro una media europea che supera il 40%. Anche la spesa media è nettamente inferiore: da noi si spendono 300-400 euro per disoccupato, nel Nord Europa o in Germania la cifra può aumentare anche di 15 volte. E secondo una ricerca Eurostat, i giovani italiani impiegano più di 12 mesi per accedere al primo posto di lavoro, il doppio della media Ue. Questa sfiducia delle politiche attive porta a una sfiducia dei giovani nei propri mezzi.

È possibile frenare e invertire questo trend? Su quali leve occorre agire: formazione, alternanza scuola-lavoro, apprendistato, politiche attive?

Occorrerebbe un mix intelligente di tutte queste misure. L’alternanza scuola-lavoro potrebbe giocare un ruolo decisivo, perché, se ben strutturata, aiuterebbe i giovani non solo ad approcciare prima il mondo del lavoro e le sue dinamiche, ma anche a farsi conoscere dalle aziende.

Anche gli incentivi, come decontribuzioni e detassazioni, potrebbero favorire un rilancio dell’occupazione giovanile? Berlusconi ha parlato addirittura di uno “Young Act” come possibile primo intervento legislativo di un futuro governo di centrodestra…

Vanno bene anche gli incentivi alla decontribuzione, sebbene siano strumenti che “drogano” il mercato del lavoro. Quando sono stati introdotti per la prima volta nel 2015 abbiamo infatti assistito a un rimbalzo superiore al 40% delle assunzioni a tempo indeterminato. Il taglio poi nel 2016 di questi bonus ha prodotto una perdita di appeal da parte delle imprese. Sotto questo profilo, la proposta di Berlusconi di uno “Young Act”, prevedendo un mix di forte decontribuzione per l’apprendistato e poi per la stabilizzazione su un arco di tempo di sei anni, potrebbe rendere più appetibile alle aziende la scelta dell’assunzione a tempo indeterminato.

Innovazione e Industria 4.0 possono essere due driver importanti per rilanciare l’occupazione giovanile?

Assolutamente sì, tenendo conto, come ebbe a dire Mario Draghi, che quella attuale è la generazione più istruita di sempre. Occorre però fare in modo che la formazione, dalla scuola all’università, intercetti meglio i bisogni delle aziende. Ci sono ricerche che mostrano come siano ancora molto numerosi i profili specializzati che non vengono soddisfatti. Serve un maggior dialogo tra mondo della formazione e mondo delle imprese.

Il programma Garanzia giovani è entrato nella “fase 2” con un rifinanziamento di 100 milioni. Finora, però, non è che abbia dato i risultati sperati…

Garanzia giovani non ha intercettato i veri profili a rischio di esclusione sociale, cioè i giovani con bassi titoli di studio e dunque con minore occupabilità. In secondo luogo, si è data enfasi alle offerte già presenti sui portali di recruiting, amplificando così una vetrina già esistente. Infine, si è puntato troppo sui tirocini, sugli stage, che non portano a reali inserimenti in azienda, a tutto svantaggio dell’apprendistato.

Non solo verso il mondo del lavoro, ma anche nei confronti della politica i giovani italiani sono disillusi, indifferenti, sfiduciati…

E’ una sfiducia verso la politica, ma non verso la società, come mostra il crescente impegno dei giovani nel volontariato. E’ una fuga dalla politica, perché la politica non sa dare loro risposte, è troppo incentrata e concentrata sui problemi degli “over”. Del resto, la popolazione sta invecchiando ed è in questa fascia d’età il principale bacino elettorale.

In queste elezioni l’Italia si gioca una buona fetta di futuro. Come si possono recuperare i giovani?

Questa è una generazione interessante, ma va data loro la possibilità di giocare la partita. È il sistema-Paese che deve abbandonare una mentalità vecchia, orientata più alla difesa degli status quo e delle rendite di posizione. Verso i giovani bisogna avere un’attenzione maggiore, a 360 gradi. Ma a vincere per primi il senso di scoraggiamento devono essere proprio loro, gli under 35. Io non parlerei tanto di “fuga dei cervelli”; secondo me, è importante che i giovani vadano a fare esperienze forti all’estero, la speranza è che poi rientrino in Italia portando quella nuova linfa di cui abbiamo tanto bisogno.

(Marco Biscella)