E’ difficile valutare le capacità politiche, non solo di statista, di Jean-Claude Juncker, niente meno che presidente della Commissione europea. Con una dichiarazione improvvisa Juncker ha detto di essere preoccupato per la situazione politica italiana, per le prospettive di ingovernabilità dopo il voto del prossimo 4 marzo. E ha proseguito con la tiritera delle preoccupazioni economiche connesse, l’esatto contrario di un’autentica novità nel “cervello” (da scrivere tra virgolette) di Juncker. L’inevitabile risultato è che, essendo conosciuto nel mondo per il suo ruolo, Juncker ha influenzato l’andamento delle Borse, che hanno chiuso in negativo anche pesantemente in certi casi.
Solo per questa ragione, Juncker dovrebbe essere messo sotto inchiesta per “insider trading”, anche se è difficile spiegare a un irresponsabile cronico che non si dovrebbe mai parlare a Borse aperte, soprattutto ricoprendo un incarico come il suo. Ma questo in fondo è ormai solo un dettaglio di una strategia più complessa che Jean-Claude Juncker persegue, con lo stile di un elefante in un negozio di maioliche, di fronte a difficoltà sempre più grandi e a una caduta di fiducia popolare nelle istituzioni europee di cui lui, Jean-Claude Juncker, è uno dei massimi responsabili accanto alla sua padrona tedesca.
Com’è noto, Juncker non ha un background culturale e di esperienza che lo possano far scambiare per un Churchill, un De Gaulle, un Adenauer, un De Gasperi, ma neanche uno Schimdt o un Kohl. In Lussemburgo, dove ha imparato tutto, Juncker potrebbe al massimo essere messo, tra cento anni, in un museo del turismo, per aver promosso il Granducato agli onori della cronaca politica.
Anche nella sua terra nativa Juncker ha lasciato un’impronta, che assomiglia vagamente alle idee di un Epaminonda delle bische milanesi, creando un paradiso fiscale che è all’origine, con tanti altri, della grande corruzione, quella reale e globale, che cresce all’ombra di questo ordoliberalismo o neoliberismo d’accatto, che ha prodotto diseguaglianze sociali che si erano da tempo dimenticate.
Le elusioni fiscali, che tanto piacciono alle nuove “piattaforme” del capitalismo finanziario, ai fautori della libertà incondizionata di muovere immensi capitali senza alcuna regolamentazione, hanno partorito questo mondo dove le diseguaglianze sono spaventose, anche di fronte a un miglioramento delle condizioni di alcuni Paesi emergenti.
Scrive nel suo ultimo libro Il mondo nuovo l’economista Stephen D. King che la crisi del 2007-2008 “rivelò una fondamentale discrasia tra l’economia e i mercati globali da una parte, e gli interessi degli stati nazionali e di altri attori non statali, dall’altra. La crisi, in questo senso, era una crisi della governance e delle istituzioni non meno che dell’economia e della finanza. I mercati avevano fallito, il lato oscuro della globalizzazione si era rivelato e nessuno sapeva che cosa fare. All’improvviso, il capitalismo del libero mercato — una pietra angolare della ‘fine della storia’ — era fermo al palo”.
Per questa ragione c’è stato un contraccolpo, cosiddetto populista, e, purtroppo, è progressivamente caduta anche la fiducia dei cittadini. A questo proposito si potrebbe ricordare Franklin Delano Roosevelt, il presidente degli Stati Uniti della Grande Depressione e della rinascita, quando spiegava che una grande economia la fa una moneta forte e imprese finanziarie forti. Ma se cade la fiducia dei cittadini, alla fine va tutto per aria.
Far comprendere tutto questo ai nostri improvvisati “premi Nobel” dell’economia sembra un’impresa impossibile. Ma, ancora di più, c’è una valanga di politici nostrani ed europei, sia di destra che di sinistra, che non riescono a concepire di aver commesso qualche errore. Così, l’ineffabile Juncker, tra una sparata e l’altra, continua a difendere questo tipo di istituzioni europee e si guarda bene dal pensare o far pensare a una minima riforma. E non si ricorda neppure degli investimenti promessi quando assunse l’incarico di presidente della Commissione. Tra tanti salamelecchi, forse, a mala pena sopporta anche gli interventi di Mario Draghi, che hanno curato per un certo periodo le asimmetrie dell’Unione Europea. Ma soprattutto, Juncker pare del tutto estraneo a un ripensamento positivo e necessario della Ue che sta diventando indispensabile tra Brexit, “guerriglia” politica di Donald Trump e contraddizioni interne. E così ogni tanto torna ai suoi compiti principali: quelli di difendere questa Europa a trazione tedesca, con l’asse francese in sottofondo e un’ottusa difesa dell’asimmetria nello sviluppo che provoca alla fine, di fatto, tutti i populismi che vediamo.
Per dirla tutta, non è sembrato vero a Juncker di attaccare l’instabilità politica dell’Italia, che è orientata in maggioranza a una parziale riscrittura positiva delle norme europee. La successiva “pezza” di scuse difensive fa solo parte della strategia propagandistica di un signore poco raccomandabile che si chiamava Joseph Goebbels.
In questo modo il presidente che viene dal Lussemburgo mitiga i giudizi, ma di fatto difende indirettamente i suoi padroni tedeschi, quelli che da un numero imprecisato di mesi stanno discutendo di un governo che ancora non si vede. Ma soprattutto difende frau Merkel, l’angelica padrona, che sta facendo gli scongiuri e i riti voodoo per il risultato dei referendum tra i socialdemocratici dell’Spd. Questa Spd approverà o no un’altra grande coalizione guidata dalla Merkel? Probabilmente sì, dopo tanti tormenti e discussioni, ma l’ultimo sondaggio non ha messo di buon umore la prima signora tedesca: nella Spd c’è un 49 per cento di no e un 51 per cento di sì. Siamo sul filo del rasoio. In più, ci sono sondaggi generali che vedono la Spd tallonata dalla destra populista e filonazista, tanto da scivolare al terzo posto tra i partiti al Bundenstag.
Ora in Italia, dopo la sfilata dei “piccoli Attila” di tutte le professioni che si sono manifestati dal 1992 in avanti, la crisi istituzionale, politica ed economica è grave. Su questo l’Europa c’entra poco. Ma allo stesso tempo l’Europa non fa nulla per aiutare l’Italia a uscire dai suoi guai, anzi pretende, attraverso il suo “primo cameriere”, di impedire che l’Italia sia una protagonista di quella parziale riscrittura delle carte del Trattato di Maastricht che servirebbero a rilanciare l’Europa.
Eppure l’Italia è un Paese fondatore, con una grande tradizione europeista, che è stato a lungo invidiato per il benessere che aveva raggiunto nel dopoguerra e per il ruolo strategico che ha sulla frontiera sud dell’Europa. Ma nulla sfiora le certezze dei falchi franco-tedeschi e quindi dello zelante servitore Juncker. Il quale, nel frattempo, si è pure dimenticato di quello che può succedere in Spagna, in Catalogna, di cui anzi non si parla neppure più. Come sotto silenzio passano i traffici con i turchi dell’amico “democratico” Erdogan e i diversi atteggiamenti degli Stati europei verso la Russa di Putin. Non parliamo poi della coesione interna europea, a cominciare dal cosiddetto gruppo di Visegrad, con i suoi falchi anti-immigrazione dalle palesi connotazioni razziste.
In questo guazzabuglio che dirige, Juncker, per conto di una manica di incapaci, incompetenti e screditati governanti europei, ha trovato l’alibi dell’attacco all’instabilità dell’Italia. Siamo, purtroppo, alle comiche finali, con responsabilità immensa delle nuove élites dirigenti di quasi tutti i Paesi democratici, che mettono a rischio la stessa tenuta della democrazia ma cocciutamente difendono questo modello di sviluppo, dove la finanza è venerata come la “dea Kalì”, dove il mercato “non si tocca perché aggiusta tutto”, dove le diseguaglianze sociali farebbero orrore anche a uno Squire inglese del 1700.