Saranno anche anti-politici, ma quando il gioco si fa duro anche i populisti devono adeguarsi alle sue regole. Luigi Di Maio ha precorso i tempi e, in spregio a ogni salutare scaramanzia napoletana, è salito al Quirinale per fornire al capo dello Stato una pseudo lista dei ministri. Ovviamente il presidente ha schifato l’autoincarico e ha lasciato a se stesso lo pseudo-premier. Ieri invece è stato Matteo Salvini a vestire anzitempo, e improvvidamente, i panni dello pseudo presidente del Consiglio prestando “giuramento” in piazza Duomo a Milano. Vestito di camicia bianca e cravatta, armato di Vangelo e corona del rosario, il segretario della Lega si è solennemente impegnato a “essere fedele al mio popolo, di servirlo con onestà e coraggio”.



I leader più lontani dalle liturgie dei partiti, i rappresentanti più forti della rabbia, dell’insofferenza, della sfiducia popolare verso la classe politica e l’assetto istituzionale sono i primi a cercare legittimazione presso chi conserva un po’ di potere: uno è salito al Quirinale, l’altro si è rivolto direttamente al Padreterno, hai visto mai che brandire il Vangelo davanti al Duomo gli possa valere come viatico per Palazzo Chigi. A una settimana dall’apertura delle urne non si sa più a che santo votarsi per raccogliere qualche preferenza. Il che dà la misura di quanto sia ancora incerta la situazione.



Salvini ha qualche problema in più rispetto a Di Maio. Uno di questi problemi ha nome e cognome, quello di Roberto Maroni, che ieri non si è fatto vedere al comizio di Milano. Nella sua ultima settimana da governatore della Lombardia, l’ex segretario leghista si è tenuto lontano dalla piazza e da Salvini. È sempre più evidente la sua presa di distanza dalla guida attuale del partito. Ed è un paradosso che questo avvenga proprio nel giorno in cui Salvini, convinto di essere un premier in pectore, veste i panni del moderato, abbandona i toni estremisti e cita addirittura un intellettuale estraneo al pantheon celtico-leghista, cioè Pier Paolo Pasolini che considerava “un’arma di distrazione” l’antifascismo rabbioso impugnato dalla classe dirigente per veicolare il dissenso.



Dal palco Salvini ha ringraziato sia Zaia sia Maroni, governatori leghisti di due grandi regioni del Nord non organici con la leadership leghista. Ma Maroni non c’era. L’altro giorno il governatore lombardo si è fatto vedere a Montecitorio, dove non tornerà da parlamentare, e ha concesso qualche confidenza ai pochi che in questi giorni si intrattengono in Parlamento anziché battere i collegi elettorali. Maroni ha confidato che esistono settori della Lega che potrebbero accettare l’idea di un governo di larga coalizione, mentre non vede lo scenario opposto, ovvero che alcune decine di parlamentari di centrosinistra o dei 5 Stelle possano staccarsi dai loro schieramenti per andare a puntellare un governo di centrodestra cui manchi una manciata di voti.

Per Maroni, insomma, non sarebbe un tabù un governo con il Pd a trazione centrista. Gentiloni ormai appare un nome poco spendibile: gettandosi a fondo nella campagna elettorale del Pd e ricevendo appoggi pesanti come quelli di Prodi e Napolitano, l’attuale premier non sembra più rappresentare quel nome di equilibrio e di garanzia per una coalizione tra diversi. Mattarella ha fatto capire che dal 5 marzo verranno rispolverate le vecchie procedure della prima repubblica, ossia lunghe consultazioni, tempo per lasciare depositare la polvere alzata in campagna elettorale, incarico a un uomo dell’area che uscirà dalle urne con una maggioranza anche relativa. E in questo scenario anche un ex ministro dell’Interno e del Lavoro, nonché ex governatore della prima regione italiana, dal profilo dialogante e poco incline agli estremismi, potrebbe avere delle carte da giocarsi.