Che valutazione si deve dare di questa campagna elettorale a pochi giorni dal voto? La sensazione diffusa è quella di una campagna stanca e deludente, cominciata troppo presto, infiammatasi nelle prime settimane di promesse al rialzo, e proseguita poi su episodi di cronaca (nera). Adesso attende solo di chiudersi. E, da questo punto di vista, l’arrivo del 4 marzo dovrebbe essere visto come una liberazione. 



Opacità, stanchezza e velleitarismo (“dove sono le coperture?” è diventata la domanda di rito) sono state le cifre di queste settimane, secondo l’opinione più diffusa tra elettori e commentatori. Tanto è vero che, in termini percentuali, il primo (o il secondo) partito sarà quello dei non-elettori.



Sono due gli elementi che aiutano a capire questa campagna anomala. 

Il primo è che questa è, dal 1994, la prima campagna elettorale che si fa con una legge elettorale sostanzialmente proporzionale. E’ da quasi un quarto di secolo che le campagne elettorali sono progettate e realizzate con la logica del maggioritario e cioè del “chi vince piglia tutto”, almeno sulla carta. Era questa la logica del Mattarellum del 1993, che era poi un maggioritario temperato da una quota proporzionale del 25 per cento . E questa era la logica del Porcellum del 2006, che estendeva la logica del maggioritario alle coalizioni su scala nazionale. 



Era stata la grande rivoluzione referendaria del 1991 e del 1993 ad avere consacrato questo principio come uno degli elementi fondativi della cosiddetta “Seconda Repubblica”. Finalmente avremmo votato, deciso con il voto un governo di legislatura (un governo cioè che durasse cinque anni), e a legislatura chiusa l’elettore avrebbe premiato o punito il partito (o la coalizione) che avesse governato. Tralascio tutti i corollari di questo, che è stato il mito politico degli anni 90. Abbiamo visto cosa è successo in questo periodo e soprattutto abbiamo visto che ogni governo di legislatura eletto con il maggioritario si è sciolto per una crisi di coalizione, esattamente come ai tempi della “Prima Repubblica”. E per strade tortuose e sentenze della Corte costituzionale si è tornati ad un sistema proporzionale, stavolta temperato da una quota di maggioritario: un Mattarellum invertito, in altre parole. 

Questo però non può essere senza conseguenze sull’atteggiamento dei partiti nel modo di progettare e di condurre una campagna elettorale. Non è solo questione di internet e social network che oggi la farebbero da padrone al posto di giornali, manifesti e comizi. E’ soprattutto questione di formula elettorale. E trovandosi ogni partito di fronte ad una formula elettorale sostanzialmente proporzionale si capisce che, per ogni partito, ad essere decisiva è senz’altro la distribuzione del consenso tra le liste in termini assoluti (quanti voti prendo) e sul territorio (dove li prendo, visto che, per la quota maggioritaria residua, la concentrazione del consenso in certe parti del territorio nazionale manda la lista in sovra-rappresentazione). 

Ma a contare ancora di più è il potenziale di coalizione, e cioè la capacità di ogni partito, ad elezioni concluse e a seggi distribuiti, di stringere accordi di governo con altri. Ed è questa la vecchia logica del proporzionale, cui questi ultimi anni ci siamo disabituati, ma alla quale non siamo mai completamente sfuggiti. Con le elezioni distribuisco le carte e assegno i seggi, dopodiché si apre il mercato politico della coalizione ed ognuno partecipa in base alla dote elettorale che gli è stata consegnata. Basta vedere cosa è successo in Germania dal settembre scorso ad oggi, dove il mercato si è aperto a settembre e non si è ancora chiuso. 

Così stando le cose, si capisce perché, rispetto al passato recente, questa sembri una campagna elettorale sbiadita. Perché ogni partito, in misura minore o maggiore, cerca di tenersi le mani libere per la fase della contrattazione di governo e cerca di non pregiudicarsi quel potenziale di coalizione che gli sarà prezioso a seggi assegnati. 

Anche per questo le dichiarazioni degli esponenti politici possono essere improntate, in questa fase, ad un insopportabile velleitarismo/genericismo. Non è solo questione di tempi della comunicazione politica (non si può spiegare in dettaglio in uno studio televisivo una riforma fiscale o come rimettere in moto un paese economicamente disastrato): è soprattutto consapevolezza del fatto che liste singole che dovranno andare in coalizione troveranno proprio nella coalizione un limite invalicabile alla realizzazione delle proprie promesse. Per cui sarà sempre colpa degli altri se quelle promesse non saranno mantenute. 

Non che non ci siano le coalizioni nella scheda elettorale: anzi, al momento, a quanto si dice, almeno una avrebbe possibilità di aggiudicarsi la maggioranza dei seggi. Resta però da chiedersi se questo sia davvero il desiderio di tutti i componenti di quella coalizione o se qualcuno non desideri, in realtà, una situazione in cui il suo potenziale potrebbe essere meglio sfruttato sul mercato politico successivo al 4 marzo.

Il che però mette in luce un altro aspetto di questa campagna elettorale: e cioè il fatto che alcuni partiti svolgano una cauta campagna elettorale da proporzionale ed altri invece continuino a presentarsi agli elettori secondo la formula del “chi vince prende tutto”. Ma anche questo è ovvio: semplicemente ci sono partiti nel dopo elezioni che possono e vogliono coalizzarsi secondo la logica del proporzionale. Ce ne sono altri che, non avendo questo potenziale, sanno che devono giocarsi tutto con il risultato elettorale, ben sapendo che, se alle prossime elezioni si presentassero dopo aver governato assieme agli avversari di sempre, sarebbero destinati ad un’eterna marginalità, avendo irrimediabilmente disperso la propria credibilità politica. 

C’è poi un secondo dato da considerare per capire meglio questa campagna elettorale. Il genericismo/velleitarismo delle proposte politiche avanzate in queste settimane dipende anche dal fatto la politica nazionale non governa più il bilancio dello Stato, dal momento che le grandezze macroeconomiche fondamentali sono dettate direttamente ed esclusivamente dall’esterno. Il che, come si è detto molte volte, ha trasformato la politica nazionale in una politica di esecuzione locale di qualcosa che è sostanzialmente già scritto nei Trattati. 

Non è il caso di riprendere qui il lamento sull’Europa matrigna, che pure ha preso ad essere uno dei temi di questa campagna elettorale. Si tratta, semmai, di ripercorrere la parabola dell’involuzione politica ed economica di questo paese e darsi delle risposte, alla luce dei risultati delle politiche di austerità “espansiva” praticate in questi anni, fino a capire una cosa molto semplice: e cioè che se non puoi fare politica di bilancio, non puoi fare politica. E quel che ti resta da fare, se vai al governo, è, semmai, manutenzione del bilancio e magheggio contabile.

Ma, allora, se questa è la situazione, bisogna riconoscere che o si cambia qualcosa su questo versante, oppure ogni elezione successiva a questa metterà in gioco sempre meno nel momento in cui si traccia un segno sulla scheda elettorale. E si allargherà il partito degli astenuti. Perché, in fondo, ciò che porta gli elettori a votare è solo la percezione di poter scegliere tra alternative politiche reali, costruite su programmi realizzabili. Altrimenti si vota solo per scegliere chi deve attuare un programma già fissato dal pilota automatico inscritto nei Trattati e di volta in volta regolato da Commissione europea e Bce.

Del resto, basta guardare fuori d’Italia, a stati comparabili all’Italia per storia e dimensioni, come Germania, Francia e Spagna, per rendersi conto che la situazione non è granché migliore, e astensionismo e disaffezione per l’offerta politica tradizionale sono cresciute a dismisura. In Francia l’affermazione di Macron è avvenuta solo grazie alla distruzione del sistema politico della Quinta Repubblica, da sempre costruito sulla polarità tra gollisti e socialisti. In Germania si aspetta da cinque mesi di avere un governo. E se ci sarà un governo, questo dipenderà dal referendum interno ad un partito, la Spd, il cui segretario, sempre cinque mesi fa, ha dichiarato in diretta televisiva, e anche in malo modo, che mai e poi mai avrebbe governato ancora in una coalizione con la Cdu. Chissà perché l’avrà detto. Forse perché quello spaventoso surplus commerciale da cui si resta ipnotizzati è un sintomo della stessa malattia della politica che altrove, in Italia, Spagna e Francia si manifesta in termini di disoccupazione, contrazione del Pil e deindustrializzazione?  E chissà perché adesso quel segretario è tornato sui suoi passi, dando il 13 febbraio scorso le dimissioni dalla guida del partito e segnando, probabilmente, la fine del suo percorso politico.

Quel che è certo è che subito dopo il 4 marzo, finita la grande fiera delle promesse, in Italia ci sarà da redigere un Def e, soprattutto, decidere su ammontare e contenuti della solita manovra correttiva che eviti, come tutti gli anni, l’attivazione di quelle clausole di salvaguardia che porterebbero all’aumento automatico di Iva ed imposte indirette. 

Insomma, tra una settimana si torna alla normalità anche in Italia, comunque vadano queste elezioni. Il pilota automatico funziona, e sta facendo il suo lavoro.