Mentre gli elettori stanno seguendo con crescente interesse e/o crescente sconcerto la campagna elettorale nel tentativo di dare qualche fondamento razionale alle proprie preferenze, posto che se ne possano avere, lo sforzo immaginativo si proietta inesorabilmente al dopo elezioni quando, eletto il Parlamento, si tratterà di dare forma ad un Governo non dico stabile (questo sarebbe stato un risultato ottenibile con una legge elettorale fortemente maggioritaria) ma, quantomeno, capace di coagulare almeno il 50 per cento più uno dei voti delle due Camere per ottenerne la fiducia, condizione sine qua non per governare il Paese.
Volendo dunque compiere il difficile esercizio di immaginare il dopo, va da sé che il primo personaggio istituzionale che viene alla ribalta è il Capo dello Stato. Tale primazia deriva direttamente dal dettato costituzionale che gli attribuisce il potere di nomina del Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, dei ministri. Niente di più dice la Costituzione: essa regolamenta solo la fase finale del processo di scelta del premier lasciando nell’ombra tutto quanto accade prima della tappa finale e del traguardo. E, pertanto, la prassi della “prima repubblica” (a cui la presente tende ad assomigliare) ha identificato diversi strumenti perché il Capo dello Stato svolga in modo utile e costruttivo il proprio ruolo, che consiste prima nel conoscere le intenzioni dei partiti (tramite le consultazioni a cui saranno chiamati tutti i partiti, anche quelli minori) e poi nell’identificare un potenziale premier (mandato esplorativo, pre-incarico, incarico eccetera) in grado di compiere l’opera di mediazione tra le forze politiche fino a coagulare una coalizione governante.
Ora, se la Costituzione nulla dice sulle condizioni di esercizio del potere di nomina e se, di conseguenza, si può anche dire, come talora si sente, che il Presidente potrebbe dare l’incarico “anche al primo che passa per strada”, è evidente che questo non è vero. Il Presidente si muove dentro una compagine istituzionale che ne determina i passi e, soprattutto, gli scopi, visto che poi qualunque governo “nominato” deve presentarsi alle Camere per la fiducia. Pertanto, al Presidente spetta il delicato compito di incanalare le diverse volontà politiche verso la formazione di un governo scegliendo chi tra le diverse personalità presenti in Parlamento ha più capacità e più carisma per giungere a questo scopo.
Ma c’è di più. Questa fase non codificata, che si svolge sotto la regia del Presidente, ha anche il compito di mostrare agli elettori quale sia la reale capacità politica e di governo delle forze in gioco. E a questa prova sono chiamati ancora tutti i partiti, non solo i maggiori. In altre parole, altro è per un partito giocarsi dentro la campagna elettorale, il luogo di ogni possibile promessa, anche la più irrealistica, per mandare agli elettori segnali che possano determinarne la scelta, altro è sedersi al tavolo delle trattative ed elaborare un programma di governo che possa tener insieme le necessità del Paese, i vincoli internazionali ed europei, le diverse scelte — anche gravi — da compiere durante la legislatura. Qui le promesse devono trasformarsi in programmi e si vedrà chi ha parlato a vuoto e chi invece può aspirare davvero alla fiducia degli elettori.
Ché se si giungesse ad un nulla di fatto e si dovesse tornare alle urne, allora il comportamento dei partiti in questa seconda fase e la capacità del Presidente di farlo emergere al di là del segreto delle trattative potrà giocare un ruolo determinante per orientare l’elettorato. Né ci si possono fare illusioni: sarà davvero molto difficile se non impossibile riscrivere la legge elettorale. Hic Rhodus, hic salta: scelto il sistema proporzionale, esso tenderà ad accompagnarci per diversi anni ancora ed è con questo sistema che occorre fare i conti senza sognare un futuro “elettorale” fatto su misura di qualcuno.