Nel gioco delle coppie ritagliato sulla “GroKo” tedesca, chi in Italia potrebbe vestire i panni di Angela Merkel e chi quelli di Martin Schulz? E’ curioso, anzitutto, come Silvio Berlusconi abbia avuto scontri storici con entrambi i nuovi co-abitanti al vertice del governo di Berlino. Il premier italiano finì irriso dalla cancelliera nella turbolenta estate 2011, sebbene ci fosse di mezzo anche un famoso epiteto, peraltro sempre smentito dal Cavaliere: il quale oggi si ritrova tuttavia riabilitato dalla stessa Merkel nel Ppe. Ma già otto anni prima “Berlusconi II” aveva dovuto affrontare in Europarlamento un leader emergente dei socialisti europei: il tedesco Schulz. che gli rinfacciò guai giudiziari e conflitti d’interesse assortiti. E si prese comunque di ritorno del “kapò” dal Cavaliere, molto irritato come presidente di turno della Ue ospite a Strasburgo.
Il 4 marzo Berlusconi non potrà essere in campo come candidato: la fatwa di Schultz alla lunga ha funzionato, ma solo fino a un certo punto. La sera delle elezioni, lo scorso 24 settembre, il leader della Spd, candidato cancelliere, ha dovuto subito annunciare le dimissioni, dopo una nuova e sonora sconfitta. E se ieri all’ora di pranzo si è ritrovato ministro degli Esteri lo deve a un gioco in cui è stato più oggetto che soggetto: trattando alla fine solo le poltrone di un esecutivo che sembra nascere vecchio, malfermo, assai poco grosse.
Il nuovo governo tedesco è infatti l’esito di un tormentato “piano B” imposto dalla presidenza delle Repubblica federale, dopo il nein opposto alla Merkel dall’emergente leader liberale Christian Lindner. Tanto che non sono pochi gli osservatori scettici sulla durata di legislatura del Merkel 4 e guardano invece alla scadenza mid-term rappresentata dal voto europeo di metà 2019. Già prima del voto di settembre, del resto, non mancava chi preconizzava la cancelliera come futura presidente della Ue (ruolo oggi ricoperto dal polacco Donald Tusk) alla guida del processo di riforma dei trattati. Una prospettiva che oggi appare molto di più una potenziale exit strategy che una promozione a “premier d’Europa”.
La sera delle elezioni italiane, old Berlusconi stando ai sondaggi potrebbe invece festeggiare una vittoria — in teoria la sua quarta — come “capitano non giocatore” del centrodestra, dall’opposizione. Se addirittura Forza Italia dovesse registrare una forte affermazione relativa rispetto a M5s, Pd e Lega sarà Berlusconi a dettare tempi e modi della koalition italiana. Un po’ Merkel, un po’ Schulz, in fondo nessuno dei due. Matteo Renzi — nei panni della pochissimo amata Merkel — sarà presumibilmente costretto a scendere a patti, magari come ultimo prezzo per non essere disarcionato, per restare al tavolo della politica nazionale non solo come capo di un pattuglione di fedelissimi.
Sembra difficile, d’altronde, che Berlusconi possa respingere il desideratum del Quirinale di Sergio Mattarella per una permanenza di Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi, anche se probabilmente in veste di “premier del Presidente”. Difficile anche che il Cavaliere possa schiodare Pier Carlo Padoan dal ministero dell’Economia: Giulio Tremonti non ha lasciato eredi (Berlusconi non ne ha mai cercati) e il grigio tecnocrate amico di Massimo D’Alema, da quattro anni al lavoro sui più indigeribili dossier italo-europei su finanza pubblica e banche, in questo momento non sembra sostituibile. Quali poltrone Berlusconi potrà dunque pretendere, anzi assegnarsi?
La prima pare scritta: vicepremier-ministero degli Esteri per Antonio Tajani, attuale presidente del parlamento europeo per il Ppe. Una seconda è più “in pectore”: Roberto Maroni di ritorno agli Interni, ad affondare ancora di più il coltello nelle divisioni interne alla Lega dopo lo showdown sulle candidature per la Regione Lombardia. Verosimile che allo Sviluppo economico resti il ministro bipartisan Carlo Calenda, che da ieri ha in tasca un future molto importante: l’impegno di Tim a controllo francese a scorporare la rete nazionale, molla di un più ampio riassetto dell’intero settore tlc, tv e media.
Andrà tenuta d’occhio anche la traiettoria di una wild card: Giorgio Gori, fino al 5 marzo sera candidato Pd per la presidenza della Regione Lombardia. Se nel duello contro Attilio Fontana, sbiadita controfigura di Maroni, l’ex manager di Mediaset dovesse riportare una “buona sconfitta”, non sarebbe sorprendente ritrovarlo ministro in un governo di coalizione. Dove non è certo rientrerebbe Maria Elena Boschi, mentre stupirebbe non ritrovare Luca Lotti, che sta gestendo con determinazione le deleghe strategiche allo sport e all’editoria. Anche perché — differenza di quella tedesca — la maggioranza di coalizione italiana che potrebbe sostenere un Gentiloni 2 appare già l’embrione di un nuovo partito: nel quale potrebbe maturare un passaggio di consegne fra Berlusconi e Renzi. E l’emergere di nuove figure leadership come lo stesso Gori o il citizen Urbano Cairo.