La data delle elezioni si avvicina, siamo quasi alla vigilia del 4 marzo, ma la pochezza, la povertà di idee e di visioni politiche di questa campagna elettorale rimane identica a quella delle prime settimane o in alcuni casi si intensifica con l’imminente apertura delle urne. L’atmosfera di incertezza per la partecipazione al voto e per il risultato elettorale va di pari passo con una generale sfiducia nella cosiddetta ripresa economica globale (che si consolida sempre, secondo fonti autorevoli, anche se poi non quadrano mai alcuni dati sull’occupazione e sull’inflazione) e nella funzionalità delle istituzioni sia nazionali che sovranazionali come l’Unione europea.



Per l’Italia la situazione è poi aggravata, non solo dai dati economici meno brillanti che altrove, ma anche dagli ultimi fatti di cronaca nera, con connotati politici e ideologici, dove si elaborano scenari con una semplicità disarmante e si schematizza tutto. Ad esempio nel dramma di Macerata, tra i problemi dell’immigrazione e dell’integrazione completamente irrisolti e mai affrontati e governati seriamente.



C’è un fatto di fondo in Italia: da tempo il disagio si è trasformato in paura, la paura in aggressività e nessuno riesce a governare una situazione allo sbando, ma ci si esercita per comodità o alibi solo con paragoni a casaccio, riesumando fantasmi del passato maturati in tutt’altro contesto e non cercando di esaminare che tipo di società si possa cercare di costruire nel “nuovo mondo” che avanza, tralasciando appunto antiche appartenenze ideologiche, sopravvissute come subcultura, in alcuni casi in modo delinquenziale, in un contesto storico, ripetiamo, del tutto differente.



Ci si permetta una parentesi di metodo. Nel 1977, John Kenneth Galbraith (da giovane economista consigliere di Roosevelt e più tardi di Kennedy, con incarichi di prestigio) scrisse un altro grande libro, L’età dell’incertezza. Nel volume, con la consueta chiarezza, leggerezza e ironia, Galbraith spiegava che eravamo entrati nell’età dell’incertezza quando le ipotesi di stabilità sociale sull’equilibrio del sistema, sulla realtà del presente e del futuro si erano rivelate precarie, nonostante lo sforzo fatto dagli economisti e dai politici.

La lezione del grande economista canadese naturalizzato statunitense era quella di una nuova ricerca di visioni economiche, sociali e politiche rispetto alle “nuove rivoluzioni” del mondo produttivo e alle sue ripercussioni sulla vita sociale. In quel libro Galbraith invitava alla ricerca di un nuovo metodo di lavoro e di studio, anche se aveva visto e descritto la crisi del ’29, la guerra, i “magnifici Trenta” del dopoguerra. Forse il paragone è esagerato ed esasperato, un vezzo della vecchiaia, ma è possibile che di fronte all’impegno di uomini come Galbraith e tanti altri, la storia oggi, in una nuova grande “età dell’incertezza”, sembra che si replichi solo in una farsa fastidiosa.

L’Italia in particolare sembra la patria dell’incapacità improvvisata. Ci sarà stato pure il “bagno purificatorio e morale” del 1992. Ci sarà stata la ripresa della società civile, il bipartitismo tentato e poi lasciato, la condanna dei “corrotti” e gli appelli all’onestà. Ma tutti i maestri di queste concezioni salvifiche si possono solo definire, alla luce dei fatti, dei moralisti senza arte né parte, perché il Paese, sia per “percezione”, ma anche per dati reali, non fa un passo avanti e lascia mille miliardi di euro nelle banche, non fidandosi di spendere o investire per paura del futuro e dichiarando, solo al 19 per cento, di avere fiducia nello Stato.

La disillusione italiana è recente, ma sempre più crescente. Che cosa dire di fronte a un dramma orribile come quello di Macerata? Una giovane ragazza fatta a pezzi dopo essere stata indotta alla droga, un neonazista marchigiano degli anni Duemila, con evidenti disturbi comportamentali, che si erge a “vendicatore”, incassa pure qualche grottesca solidarietà dopo aver sparato sulle persone di colore. A questo punto, con i media che montano la panna, tra una canzone e l’altra di questa infernale menata nazionale di Sanremo, si discute sull’impronta nazista dello sparatore, quando tutta la sequenza tragica ha dei connotati che devono essere presi in considerazione dall’autorità di polizia, da quella giudiziaria e da quella carceraria, cercando di rassicurare le persone e intervenendo con competenza, non con comizi.

Esiste di fatto (bisogna prenderne coscienza) il problema, anche culturale, dell’immigrazione che è stato sottovalutato, ma soprattutto, nel momento di massima espansione, è stato oggetto di una trattativa poco chiara in sede europea (flessibilità in cambio di funzionare come primo bastione-gestore nei confronti delle migrazioni), che ha lasciato tutti esterrefatti e soprattutto ha messo l’Italia in una confusione incredibile di competenze e ruoli paraburocratici che dovevano essere e possono essere solo di carattere europeo. Questo è possibile solo con una trattativa che costringerebbe addirittura a mettere in discussione la stessa esistenza dell’Unione. Altro che le contestazioni del “Visegrad group”!

Detto questo, c’è pure da aggiungere, da un punto di vista culturale, che il rapporto tra l’Italia e il suo passato fascista è stato sempre aggirato e mai spiegato interamente. Dobbiamo ricordare Alberto De Bernardi e Luigi Ganapini, che nella loro Storia d’Italia sottolineavano la voglia degli storici italiani a puntare “piuttosto sull’oblio che sulla presa di coscienza”? Bisogna ricordare I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948 di Mirella Serri, dove si spiegava che c’era in Italia chi era fascista al mattino e antifascista dopo le sei di sera? Bisogna ricordare le lezioni e i libri di Renzo De Felice, che ha “svelato” ad alcuni “smemorati” che il capo della Resistenza, fino al 28 aprile 1945, si chiamava Alfredo Pizzoni? O ricordare che l’adesione al fascismo, documentata da De Felice (contestato nelle università), era tale da far vergognare un intero popolo? O ancora ricordare che dopo il mitico ’92, alle elezioni di Roma, il secondo partito era il Movimento sociale (si chiamava ancora così, chi ricordava Mussolini e Salò) di Gianfranco Fini?

C’è un’ipocrisia enfatica, aggressiva e fuorviante in questa Italia che non sa e non vuole ricordare i suoi rapporti con il fascismo, travestendosi da antifascista di lunga data, che lascia perplessi. E bisogna ringraziare che il contesto è diverso, molto diverso dai tempi di chi fece sul serio la Resistenza: una minoranza che permise all’Italia di salvare almeno la faccia di fronte agli Alleati e sul tavolo della pace.

Non ci si può quindi stupire delle stupidaggini di esponenti di tutti i partiti, da sinistra a destra, con poche eccezioni, nelle riflessioni dette a voce alta in questo momento. Si va dagli “italiani rincoglioniti” del geniale Di Battista pentastellato al suo compagno di partito Luigi Di Maio “O vinciamo noi o ci sarà il caos”, che pensa di essere il re di Francia che parla a Madame Pompadour: “Après moi le deluge”. Poi c’è il Berlusconi dei 600mila rimpatriati, il Salvini delle sparate a vanvera, la Meloni che “media tra i due ragazzi”. Quindi la sinistra che avverte con molti suoi esponenti che “ci sono i mandanti morali”. Si aggiunge pure l’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a parlare di “razzismo” e Mein Kampf letto da troppi giovani. Ma il buon senso non consiglierebbe un utile silenzio?

Forse è il Festival di Sanremo che si è impossessato di tutta Italia, anche della politica e di quelli che un tempo erano dei grandi giornali, che ora vendono sempre meno e se ne capisce bene la ragione. Appunto perché l’Italia si è trasformata definitivamente in un gigantesco Festival di Sanremo. È incredibile ad esempio che il quotidiano di via Solferino pretenda oggi di volere una politica ragionata, dopo aver cavalcato da 25 anni, in modo del tutto irragionevole per quello che fu il giornale di Luigi Albertini, la più impudente antipolitica, facendo diventare un successo un libro come La casta e sdoganando il grillismo. Neanche Gino Latilla ci sarebbe riuscito. Se infine ci si vuole divertire si può leggere il fondo di ieri, dove un buontempone a cui mancano alcuni scaffali di libri fa paragoni tra queste elezioni e quelle del 1948, in un modo tanto scontato da essere irritante. Insomma, il pressapochismo al potere e l’ignoranza in redazione.