Non si può creare nuovo debito e per questo “caso unico, proponiamo il congelamento della spesa pubblica in termini nominali per la durata della prossima legislatura”; al tavolo con l’Europa non ci si siede comportandosi da “malmostosi”, ma da “protagonisti”; la libertà di movimento è “il principale motore di sviluppo”. Rispondendo alle domande del Sussidiario, Emma Bonino, leader di +Europa, elenca le ricette per rilanciare lavoro, crescita, lotta alla povertà, puntando su “occupazione femminile, liberalizzazioni, nuovo modello di welfare”. E auspica che la sostenibilità ambientale diventi “la stella polare di tutte le decisioni”. Quanto alle possibili alleanze post-voto, no secco a qualsiasi accordo con forze “sovraniste, nazionaliste, populiste e xenofobe”.



La rincorsa alle promesse facili riguarda tutti i partiti. A quanto ammontano gli impegni di spesa che il suo partito mette in campo e come pensa di coprirli?

La rincorsa alle promesse facili non ci riguarda e penso sia l’aspetto più deleterio di questa campagna elettorale. Da parte nostra non c’è alcun impegno di spesa in questa fase – caso unico, sottolineo -, visto che proponiamo il congelamento della spesa pubblica in termini nominali per la durata della prossima legislatura. Occorre, quindi, tagliare uscite correnti e agevolazioni fiscali per compensare l’aumento inerziale dei costi delle pensioni, intervenendo sulla spesa corrente in base alle linee guida degli ex commissari alla spending review. Se poi per inflazione e crescita economica si confermeranno i trend positivi, allora si potranno rimodulare le tasse con i tagli alle aliquote sui redditi di persone e imprese e ridurre la pressione fiscale. La nostra proposta riguarda, in particolare, il taglio di Irpef e Ires; pensiamo di coprire con la reintroduzione dell’Imu sulla prima casa, l’abolizione dell’aliquota Iva intermedia del 10% e il taglio di diverse agevolazioni fiscali. Ricordo che il nostro debito pubblico, stabilizzatosi negli ultimi anni intorno al 132% del Pil, è da troppo tempo una zavorra insostenibile per l’economia del Paese e pensare di aumentarlo è semplicemente da irresponsabili. La spesa per interessi, pari a 66 miliardi nel 2016, è un macigno nel bilancio dello Stato. Aggiungo che l’elevato stock di debito rappresenta una minaccia per la stabilità dell’intera area dell’euro e uno dei principali ostacoli al processo d’integrazione delle politiche di bilancio a livello europeo, fatto questo che sta a cuore a un raggruppamento che si chiama +Europa, ma che sembra sfuggire a tutti gli altri. Qui non si tratta d’imporre una politica lacrime e sangue – espressione tanto cara ai detrattori di una qualsiasi politica di non contenimento della spesa -, ma di evitare di trasmettere ai nostri figli una situazione pesantissima.



Ritiene che i provvedimenti che hanno avuto effetti positivi sull’economia reale vadano comunque mantenuti? Quali sono secondo lei gli effetti del Jobs Act e di Industria 4.0?

Smantellare provvedimenti positivi solo per motivi di antagonismo politico è l’ultima cosa di cui ha bisogno il nostro Paese. Nel lungo periodo il benessere e la qualità della vita del nostro Paese dipenderanno dalla capacità delle imprese di restare al passo con lo sviluppo tecnologico del pianeta, mantenendo i punti di forza che hanno finora contraddistinto il sistema-Italia, a partire dalla capacità di produrre “qualità”. Ricordiamoci che l’Italia rimane un Paese con bassa occupazione, bassa produttività e bassi salari. Tutti sintomi di una malattia dovuta alla rigidità del mercato del lavoro. Il modello di flexsecurity del Jobs Act, basato su una maggiore flessibilità in uscita attraverso la riduzione delle tutele in caso di licenziamento e su una copertura quasi universale dei sostegni al reddito per chi ha perso il lavoro, non è quindi da considerare la panacea di tutti i mali, ma una tessera di un puzzle di riforme ancora da realizzare. Secondo noi, è necessario costruire un vero mercato del lavoro europeo, interdipendente e integrato, sperimentando forme di apprendistato e mobilità formativa a livello continentale. In particolare oggi, con l’inizio della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale” caratterizzata dalla sempre più pervasiva digitalizzazione dei sistemi produttivi, l’Italia rischia di rimanere indietro. È quindi necessario agire su tutti i fattori di produttività, intervenendo sui tanti ostacoli “di sistema” alla crescita e allo sviluppo: dal sistema formativo alle infrastrutture materiali e immateriali, dal funzionamento della giustizia civile alla burocrazia.



È fondamentale anche la dimensione degli investimenti delle imprese. Vogliamo, coerentemente con quanto già fatto dal governo con il piano nazionale Industria 4.0, spingere le imprese a fare investimenti di qualità per produrre beni ad alto valore aggiunto. Serve costruire una rete dell’innovazione sul territorio, accelerando i bandi per i Competence center e i Digital innovation hub già previsti nel piano Industria 4.0. Serve una governance della politica industriale, in grado di mettere a sistema le istituzioni pubbliche, le università, i centri di ricerca e le imprese. È necessario concentrarsi da subito sulle aree di crisi industriale complessa, definendo iter accelerati per gli interventi di bonifica e infrastrutturali, prevedendo corsie preferenziali per il Fondo di garanzia e ispirandosi a quanto previsto per le Zone economiche speciali.

È essenziale, oltre agli investimenti, l’apporto della ricerca, a partire da quella pubblica. Al riguardo, l’Italia è in ritardo, sia per quanto concerne l’ammontare delle risorse finanziarie destinate alla ricerca, sia per quanto concerne la capacità di interfacciarsi con il mondo delle imprese. Ne consegue l’esigenza di una riforma del comparto, con un’ottica capace di superare vincoli e logiche della pubblica amministrazione.

Pur avendo un’economia più piccola e un numero di abitanti minore, l’Italia ha circa un milione di imprese in più della Francia. Si tratta per la stragrande maggioranza di micro-imprese e partite Iva, ma anche tante piccole imprese, poche medie e pochissime grandi. Questo ha conseguenze sulla produttività e competitività del sistema-Paese e dunque sul benessere dei lavoratori. È necessario un impegno particolare nell’individuare e rimuovere gli ostacoli burocratici e “di sistema” che impediscono la crescita dell’impresa italiana. Anche per questo abbiamo incluso il Piano Calenda-Bentivogli nel nostro programma: perché non vogliamo nascondere ai nostri elettori quanto sia difficile la strada dell’innovazione e della produttività per vincere la sfida della globalizzazione e dell’automazione.

Un tema rilevante riguarda l’Europa: ha senso dichiararsi sovranisti senza se e senza ma, oppure difensori altrettanto acritici di un assetto “guidato” da Germania e Francia? Come rimettere in primo piano gli interessi dell’Italia?

A me sembra che ci sia una terza via molto chiara rispetto al sovranismo tout court, da un parte, e al rimanere supini rispetto alle iniziative franco-tedesche, dall’altra. Oggi è sempre più chiaro che il futuro dei cittadini dei singoli Paesi sarà migliore quanto più forte sarà la Ue. La nostra sicurezza interna ed esterna, la nostra crescita, la capacità di avere un ruolo nel mondo e di governare i fenomeni legati alla globalizzazione, a cominciare dalle crescenti diseguaglianze, dai cambiamenti climatici e dai flussi migratori, saranno maggiormente garantiti se riusciremo a contare in un’Europa che conta. La vera sovranità che oggi possiamo esercitare nell’interesse dei cittadini italiani è quella che condividiamo in Europa, mentre la sovranità nazionale di cui parlano Salvini e Di Maio è una sovranità illusoria, fuori dal tempo e dalla storia. Parlare di Europa non significa allontanarsi dagli interessi degli italiani, al contrario! Significa avvicinarsi agli interessi dei lavoratori, dei risparmiatori, dei pensionati, dei giovani italiani: significa parlare del loro futuro migliore. Per questo dobbiamo rimanere in Europa da protagonisti, con tedeschi e francesi, e non da antagonisti malmostosi incapaci di stare al tavolo dove le decisioni vengono prese.

L’immigrazione: quali proposte credibili per una politica di controllo che possa mettere insieme accoglienza e interventi realmente efficaci contro i casi di delinquenza, a cominciare dall’occupazione sistematica dei treni dei pendolari al Nord?

Continuiamo a sostenere con forza un’idea di società plurale e aperta, dove la libertà di movimento – delle persone, dei capitali e delle merci – sia considerata il principale motore di sviluppo sociale e culturale oltre che economico. Per questo meglio sarebbe eliminare qualsiasi norma di ostacolo a una buona integrazione degli stranieri nella società e nel mercato del lavoro, che finisce per generare irregolarità, lavoro nero, emarginazione sociale e insicurezza per tutti. Per ottenere un sistema di integrazione efficace riteniamo fondamentale, a livello nazionale, il superamento della legge Bossi-Fini. Il sistema di accoglienza va migliorato, con l’adozione esclusiva del modello Sprar, soprattutto dal punto di vista della qualità dei servizi attraverso meccanismi di monitoraggio efficaci. Ma è necessario investire maggiormente su formazione e lavoro, valorizzando le forze produttive del territorio e mettendo i centri per l’impiego nelle condizioni di erogare con efficacia servizi di formazione e avviamento lavorativo attraverso appositi sportelli per l’integrazione da finanziare, a livello nazionale e regionale, ricorrendo ai fondi europei. Se tutte queste condizioni saranno raggiunte, siamo convinti che molte delle difficoltà che oggi abbiamo nel coniugare accoglienza e legalità saranno superate.

Quali sono le ricette del suo partito per lavoro, crescita e lotta alla povertà, al di là dei sussidi a carico dello Stato previsti da tutte le forze politiche?

Ampia domanda. Rispondo punto per punto. Lavoro. Proprio per evitare il ricorso ai soliti sussidi a carico dello Stato serve un piano di politiche attive per il lavoro che coinvolga la scuola e l’università, i centri per l’impiego, gli enti locali e le imprese. In particolare, è urgente riformare i centri per l’impiego, strutturalmente inadeguati a mettere in contatto domanda e offerta di lavoro in tempi rapidi, precondizione per la sostenibilità finanziaria dei nuovi ammortizzatori sociali. Vogliamo incentivare misure che spingano le aziende a creare posizioni di mentoring per i lavoratori più giovani su cui spostare quelli più anziani, per favorire la trasmissione delle competenze e la formazione dei giovani sul luogo di lavoro ed evitare l’allungamento del tempo di lavoro su mansioni usuranti. Il maggior coinvolgimento delle donne nel mondo del lavoro e il raggiungimento di un vero equilibrio di genere sono condizioni essenziali per la crescita del nostro Paese. A fronte di una maggiore scolarizzazione rispetto agli uomini, la presenza delle donne nel mercato del lavoro è largamente inferiore alla media europea e la loro retribuzione è molto più bassa. Per modificare questa situazione occorre mettere a disposizione delle donne strumenti molto più efficaci per la conciliazione tra lavoro e famiglia. In particolare, occorre continuare a intervenire sul piano dei servizi, innanzitutto gli asili nido, assicurandone anche il funzionamento in orari che consentano alle donne il pieno svolgimento della propria attività lavorativa. È anche importante promuovere il ritorno delle donne al lavoro dopo la maternità, con strumenti che le garantiscano sotto il profilo della retribuzione e dell’inquadramento professionale. Va superato il congedo di maternità in favore del congedo parentale, di cui possono usufruire sia gli uomini che le donne. Inoltre, è opportuno che le stesse aziende rendano conoscibili e diano evidenza dei livelli salariali adottati al proprio interno.

Crescita. L’Europa e il suo mercato unico, la libertà di circolazione al suo interno di persone, capitali, beni e servizi sono la dimostrazione migliore degli effetti virtuosi della concorrenza per la generazione di ricchezza e opportunità. I settori ancora non sufficientemente aperti alla concorrenza, dai trasporti all’energia, dai servizi pubblici locali alle professioni, vanno progressivamente liberalizzati. È necessario privatizzare le imprese pubbliche che operano in mercati concorrenziali e garantire che alla privatizzazione corrisponda un processo di liberalizzazione che eviti il fiorire di nuovi monopoli privati. Questo avrebbe il duplice effetto virtuoso di contribuire all’abbattimento dello stock di debito e di liberare energie in settori ancora parzialmente o totalmente protetti, nell’interesse dei consumatori. È tuttavia fondamentale che i processi di privatizzazione abbiano luogo in un contesto di regole limpide e in una situazione di mercato che scongiurino operazioni non trasparenti, prive di solide prospettive industriali, non remunerative per l’erario.

Bisogna andare nella direzione del superamento dell’attuale assetto proprietario delle banche, rompendo il legame perverso che gli istituti di credito – tramite le fondazioni bancarie – hanno con la politica locale, causa principale della debolezza delle banche italiane. Anche in questo settore, è necessaria maggiore concorrenza e maggiore apertura agli investimenti esteri.

Vogliamo mettere a gara i servizi pubblici locali, per renderli più efficienti e restituire ai cittadini il potere di governare e controllare la qualità del servizio. I Comuni e le Regioni devono definire le strategie di governo dei trasporti tramite un contratto di servizio, a cui le aziende vincitrici della gara dovranno poi rigidamente attenersi. Tutte le concessioni a privati del patrimonio pubblico devono seguire criteri trasparenti di aggiudicazione e di definizione dei prezzi, coerentemente con le direttive europee, in particolare la direttiva servizi (cosiddetta Bolkestein). Il patrimonio demaniale può essere messo a reddito dai privati, purché vi sia un ritorno economico della collettività in termini di investimenti, cura e manutenzione.

Lotta alla povertà. L’obiettivo centrale della riforma del welfare deve essere quello di sconfiggere la povertà giovanile. Secondo il rapporto Caritas 2017, il rischio di povertà riguarda circa 2 milioni di persone tra i 16 e i 24 anni, ovvero il 33,7% dei giovani italiani: una percentuale del 6,4% più alta rispetto alla media europea. Il tasso di disoccupazione è circa il doppio della media europea. Ancora più significativo è che negli ultimi 20 anni la ricchezza delle famiglie con capofamiglia fino a 34 anni si è dimezzata, mentre quella delle famiglie in cui il capofamiglia ha almeno 65 anni è cresciuta del 60%. Nonostante questo, solo il 37% della spesa non previdenziale è destinato agli under 40. Occorre rivedere il nostro welfare e aumentare questa percentuale almeno fino alla media europea, con interventi mirati e miglioramento dei servizi, soprattutto a favore delle donne e delle famiglie giovani. Contributi alla formazione, sostegno al reddito e servizi che consentano alle donne di conciliare famiglia e lavoro sono le nostre priorità per garantire giustizia sociale e per promuovere la crescita del nostro Paese, che deve avere in giovani e donne i suoi principali protagonisti.

Occorre anche aumentare la quota del Fondo sociale europeo destinata all’accesso al lavoro e all’inclusione sociale. Secondo gli ultimi dati, l’Italia ha destinato i fondi europei a queste finalità una quota pro capite di soli 48,7 euro, a fronte di una media europea di 77,1 euro pro capite. Bisogna arrivare almeno alla media europea, anzi superarla, perché in Italia il problema è più grave che negli altri Paesi. I nuovi fenomeni di povertà richiedono politiche di contrasto basate non solo su sostegni al reddito temporanei, ma soprattutto su politiche d’inclusione nel mondo del lavoro e sull’adeguamento delle competenze dei lavoratori spiazzati dalla globalizzazione e dalla nuova domanda di professioni tecniche e altamente qualificate.

Ci prefiggiamo l’obiettivo di contrastare la povertà assoluta e di contenere quella relativa attraverso una riforma complessiva del welfare non previdenziale, nell’ottica di una più equa redistribuzione delle risorse e una migliore corrispondenza ai bisogni reali, attraverso una rimodulazione delle prestazioni che preveda l’abrogazione di alcune misure esistenti e la loro sostituzione con nuove prestazioni fondate su princìpi di maggiore equità sociale. Per questo proponiamo uno strumento di sostegno al reddito universale rivolto a tutti coloro che si trovano in povertà assoluta, che colmi la distanza tra le risorse economiche della famiglia e la soglia di povertà assoluta, che vari in base al numero e all’età dei componenti della famiglia e al Comune di residenza. Sono necessarie misure che abbinino al trasferimento monetario e alla fornitura di servizi anche interventi d’inclusione attiva per responsabilizzare i beneficiari e favorire l’ingresso nel mercato del lavoro.

Nessuno parla di sanità: ritiene che il servizio ai cittadini sia adeguato, che sia migliorabile a partire dalle liste d’attesa e che le differenze qualitative tra Nord e Sud possano essere ridotte o annullate?

Per effetto della regionalizzazione si è progressivamente accentuata la disparità di offerta sanitaria sul territorio nazionale. Occorre porsi, pertanto, l’obiettivo di correggere questa deriva e di garantire le medesime cure a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro residenza regionale, anche attraverso la modifica della ripartizione di competenze fra Stato e regioni. Non esistono sistemi diffusi di valutazione delle prestazioni e delle strutture, né informazioni pubbliche e accessibili a tutti sugli esiti delle valutazioni; la sanità è autoreferenziale e l’utente conta poco o nulla, come certificato da indici di valutazione europei. È necessario introdurre sistemi di valutazione obbligatori per le prestazioni, i servizi e le strutture in tutto il territorio nazionale e informazioni e accessibilità dei risultati per tutti. Attualmente la sanità delle regioni viene commissariata esclusivamente in caso di deficit eccessivo. È necessario introdurre la procedura di commissariamento anche in caso di scarsità (quantitativa e qualitativa) di servizi erogati, compreso il mancato rispetto dei tempi massimi d’attesa per gli esami diagnostici definiti per legge. Il Commissario (nominato dal Governo) deve essere un esperto esterno alla Regione commissariata.

Un’altra azione importante è la piena informatizzazione del Ssn, con l’obiettivo di realizzare la completa operatività su tutto il territorio nazionale del Fascicolo sanitario elettronico e delle ricette digitali, la dematerializzazione di referti e cartelle cliniche, nonché il sistema di fatturazione elettronica delle prestazioni farmaceutiche.

Quali proposte e soluzioni per gli anziani, visto che il nostro Paese sta invecchiando?

In genere, trovo che la questione demografica, con tutte le sue implicazioni, non riceva l’attenzione che merita da parte della classe politica. Limitandomi al settore sanitario, considerato che l’invecchiamento della popolazione costituisce un fattore di crescita della domanda di prestazioni sanitarie, può essere utile prevedere una soglia minima di finanziamento, calcolato in percentuale al Pil di ogni paese, unitamente a una soglia minima di qualità delle prestazioni e dei servizi erogati. L’allocazione delle risorse è ancora troppo concentrata sulle cure per acuti, mentre l’emergenza dovuta all’invecchiamento richiederebbe maggiori stanziamenti per la cura delle cronicità e disabilità. Per questo proponiamo uno spostamento progressivo della spesa sanitaria in questa direzione.

Aggiungo che il sistema previdenziale è il principale contratto sociale tra le generazioni. La sua insostenibilità finanziaria e la sua iniquità non ha solo comportato l’aumento del peso delle pensioni sul Pil e sul complesso della spesa sociale, ma ha rappresentato negli ultimi decenni la principale ragione di debolezza del nostro sistema di welfare. La riforma Fornero ha garantito la sostenibilità del nostro sistema previdenziale, ma ne ha ridotto solo parzialmente le iniquità generazionali legate a scelte passate – in materia di età pensionabile e di remunerazione dei contributi versati – in larga misura non reversibili. Nondimeno, questa che rappresenta la vera e principale emergenza del nostro sistema previdenziale è del tutto elusa nel nostro dibattito pubblico. La discussione è invece interamente assorbita dal problema dell’età di pensionamento e dall’identificazione della vecchiaia come “età della povertà”. Anche in questo caso è vero il contrario, visto che la povertà riguarda oggi il 4% degli italiani con più di 65 anni, ma ben il 12% dei giovani sotto i 18 anni. È anche questo il prodotto di un processo storico, non solo remoto, ma anche relativamente recente. Ancora nel 2001 la spesa per pensioni “di vecchiaia” superava per importo complessivo quello per le pensioni “di anzianità”. Invece la situazione si è capovolta proprio nel periodo dalla più dura e inconcludente discussione sulla riforma post “legge Dini”. Negli anni 2000 vi sono stati circa 3,5 milioni di nuovi pensionati con un’età media di pensionamento di 57-58 anni e con prestazioni per lo più medio-alte. Dal punto di vista programmatico, bisogna proseguire, non tornare indietro sulla strada delle riforme. Non solo non bisogna toccare la riforma Fornero, ma bisogna difendere l’idea che l’equità intergenerazionale, oltre a essere dovuta in attuazione del principio costituzionale di uguaglianza, è una forma di moralità e responsabilità politica.

Valorizzare il patrimonio culturale italiano a favore dei giovani e dell’occupazione: cosa propone il suo partito?

Esiste una tendenza consolidata a considerare la cultura come un “patrimonio” da conservare immutato, mentre i beni e le attività culturali e creative sono “vivi” e capaci di generare progresso sociale ed economico. Moltissimi Paesi europei stanno investendo nella cultura come strumento di coesione sociale, integrazione e sviluppo economico, mentre l’Italia è al penultimo posto nell’Unione europea per investimenti pubblici in cultura. Questo nonostante i dati dicano che il sistema produttivo culturale e creativo italiano – industrie culturali e creative, patrimonio storico artistico, performing art, arti visive, design, editoria, moda eccetera – generi 90 miliardi di euro di giro d’affari, che corrisponde a oltre il 6% del Pil. È necessario stimolare le imprese, profit e non profit, del comparto culturale e creativo a “fertilizzarsi” reciprocamente e offrire all’industria culturale opportunità in termini di investimenti, disponibilità di fondi per ricerca e innovazione, accesso al credito e a nuove forme di finanziamento.

Bisogna uscire dalla logica di interventi sporadici e di breve periodo che insistono sul “consumo di cultura” e passare a investimenti strutturali a favore della “produzione di cultura”. Servono strumenti capaci di trasformare le imprese culturali italiane e gli artisti da “specie protetta” in nuovi protagonisti della società.

Un capitolo centrale, a questo proposito, riguarda gli appalti pubblici per l’edilizia o le infrastrutture, che già oggi prevedono economie per abbellimenti e opere d’arte, per i quali devono essere messe a disposizione risorse capaci di attivare processi di innovazione sociale e culturale e di creazione di bellezza, così come sperimentazioni legate all’utilizzo delle nuove tecnologie da parte degli operatori culturali. Dobbiamo investire sulla formazione a 360° (soft skills, contaminazione con altri settori e le altre culture) degli addetti all’industria culturale e creativa. È fondamentale accrescere le opportunità di espressione creativa nella scuola, aumentando la consapevolezza nei cittadini, a partire dai più giovani, sul ruolo sostanziale che la cultura ha per ciascuno di noi e per tutto il Paese.

Infine, in aggiunta alle attuali agevolazioni (“Art bonus”), l’Italia non ha ancora una legge che semplifichi e agevoli il mecenatismo culturale, per far sì che per gli italiani diventi motivo di orgoglio investire in cultura.

L’Italia ha sottoscritto nel 2015 l’Agenda 2030 dell’Onu e i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile: come intende raggiungere questi obiettivi? Che misure intende adottare per il clima?

È indispensabile un salto di qualità delle politiche ambientali, con l’obiettivo di costruire un nuovo modello di sviluppo sostenibile nel lungo periodo, rispettoso dell’ambiente e idoneo ad assicurare una migliore qualità della vita. Occorre un nuovo approccio che assuma la sostenibilità ambientale come stella polare nella formazione di tutte le decisioni. I più urgenti obiettivi ambientali sono la riduzione delle emissioni serra, responsabili dei cambiamenti climatici in atto, e la riduzione dell’inquinamento dell’aria, il quale soprattutto nei centri urbani è responsabile di costi umani e sanitari enormi. Il report “The Lancet Commission on Pollution and Health”, dedicato agli effetti dell’inquinamento sulla salute umana, ha evidenziato come inquinamento e povertà siano strettamente legati: l’obiettivo della riduzione di inquinamento ed emissioni non è in contrasto quindi con lo sviluppo, la crescita economica e l’innovazione tecnologica.

Per raggiungere l’obiettivo ambizioso della decarbonizzazione è necessario che la transizione sia graduale, ma inesorabile, con un apporto sempre maggiore di energie rinnovabili e l’uso del gas naturale come fonte di transizione. È utile favorire disincentivi di mercato all’uso di fonti inquinanti come il sistema europeo di scambio delle quote di emissione, che garantiscano una convenienza economica alla riduzione delle emissioni, per non mettere in contrapposizione crescita economica e sostenibilità ambientale. Anche l’introduzione di una “carbon tax” può disincentivare i processi ad alta intensità di emissioni, nel quadro di una complessiva riduzione della pressione fiscale. Ci batteremo perché gli impegni del Governo a uscire dal carbone entro il 2025 e ottenere entro il 2030 che il 55% dell’elettricità provenga da fonti rinnovabili vengano rispettati senza compensazioni illegittime ai produttori che tardino ad adeguarsi. Linee d’azione coerenti per l’Italia sono l’elettrificazione dei consumi energetici, compresi quelli per il trasporto privato attraverso la diffusione dei veicoli elettrici, anche ibridi in una fase di transizione, e la riduzione delle emissioni nocive nei centri urbani, quest’ultima ottenibile con il disincentivo (con misure di mercato come l’Area C di Milano) ai veicoli con motori a combustione e alle forme più inquinanti di riscaldamento degli edifici. Queste politiche devono associarsi a investimenti in potenziamento del trasporto pubblico urbano anche ferroviario, alla diffusione di car sharing e bike sharing e all’eliminazione dei vincoli allo sviluppo di forme di share economy nella mobilità.

È anche necessario proseguire con le politiche per l’efficienza energetica degli edifici pubblici e privati: si tratta di investimenti con ricadute sia ambientali che economiche generalmente molto favorevoli e per questo riteniamo sia importante favorire incentivi cedibili finanziariamente. In coerenza a tutti questi obiettivi, il primo passo per fornire segnali coerenti al sistema economico è introdurre princìpi di fiscalità ambientale più rigidi volti a disincentivare in generale il consumo di risorse finite, con eliminazione da subito dei sussidi pubblici alle fonti fossili d’energia. La transizione al mercato del settore dell’energia deve essere completata con una regolamentazione corretta (non esosa per i cittadini rispetto alle buone prassi internazionali e nello stesso tempo mirata allo sviluppo) delle reti gestite in monopolio e una promozione senza indugi della concorrenza nei settori in competizione, limitando il potere di mercato degli ex monopolisti.

Sul piano ambientale occorre, inoltre, perseguire altri importanti obiettivi. La riduzione del consumo di suolo, in coerenza con le linee indicate dall’Unione europea e tenendo conto dell’ampiezza del processo di cementificazione che ha interessato il nostro Paese, con grave impatto sull’ambiente, sul paesaggio e sulla produzione agricola. La salvaguardia e la corretta gestione della risorsa “acqua”, nel contesto di un cambiamento climatico che ne riduce la disponibilità. Il recupero di condizioni ottimali nei mari e nelle acque interne, con l’obiettivo di ripristinare e tutelare le risorse biologiche. Una seria e coerente politica di salvaguardia dei parchi naturali e delle altre zone protette, anche con la prospettiva di ampliarne l’estensione, nel rispetto delle attività economiche presenti nelle zone interessate, e una crescita della sensibilità nei confronti delle specie animali. La riduzione e una progressiva eliminazione di tutti gli inquinanti immessi nell’ambiente, anche attraverso un contrasto sempre più forte nei confronti di tutti i fenomeni di illegalità connessi alla produzione e allo smaltimento delle sostanze inquinanti.

Nel caso di un risultato elettorale che non assicuri la governabilità, come pensate di muovervi? Quali alleanze si sente di escludere in ogni caso?

Per rispetto degli elettori ci muoveremo solo sulla base dei risultati elettorali i quali – lo dico spesso – potrebbero riservare qualche sorpresa, e non solo per gli incerti, per certi versi perversi, meccanismi di questa legge elettorale. Ciò premesso, ritengo difficile un’alleanza con raggruppamenti anti-europeisti, sovranisti, populisti, e spesso anche xenofobi, a cui abbiamo voluto sbarrare la strada in questa elezione e che rappresenta il motivo principale del nostro apparentamento con altre forze del centro-sinistra.

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