Nessuno, a oggi, è in condizioni di dire come evolverà questa già tormentata crisi di governo, la cui “pratica” non è ancora arrivata con le consultazioni al Quirinale e, prima ancora che formalmente cominci la legislatura con l’insediamento del nuovo Parlamento e l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, ha al suo attivo già due appelli alla responsabilità del presidente Mattarella.



Molto — della soluzione che verrà fuori — dipenderà dall’atteggiamento, al dunque, del Partito democratico. È ritualità necessaria la dichiarazione del vicesegretario reggente, dopo le dimissioni del segretario battuto sonoramente nelle urne, che “guiderà il partito con collegialità”. Meno rituale, ma obbligata allo stesso modo, la dichiarazione, in sintonia con tutti, renziani e non renziani, a prescindere da Emiliano, che non ci sarà un governo 5 Stelle-Pd. Non ci sono le condizioni — al momento, ma per quanto? — per un’apertura a un governo 5 Stelle, consentito in una qualche forma: dall’accordo politico su un minimo denominatore programmatico alla non-sfiducia per consentire un governo di minoranza. Ed è molto probabile che un Pd ancora in mano a Renzi, nonostante le dimissioni, cercherà in ogni modo di non dividersi su una prospettiva di apertura a sinistra, puntando piuttosto a far naufragare sui numeri un eventuale incarico a Di Maio, per giocarsi piuttosto la partita su un tentativo affidato a una personalità del centrodestra che non sia Salvini; tentativo che potrebbe vedere un sostanziale via libera, dal coinvolgimento all’appoggio esterno, a un contributo tecnico alla fiducia (per rispondere in modo condizionato all’appello alla responsabilità, che per altro coincide con l’interesse del Pd e di Berlusconi a non tornare immediatamente al voto), del Pd ancora a trazione renziana. Per potersi giocare, quando sarà, al più entro il 2019, la partita di ritorno.



Perché questo significano le dichiarazioni del segretario dimissionario: “Mi dimetto, ma non mollo. Il futuro prima o poi torna”. Con l’invito perentorio cui si è adeguato il vicesegretario reggente Martina alle forze vincitrici: “Ora governino”. Il tentativo di Renzi sarà gestire quella che egli interpreta, e sta provando a far interpretare al suo partito, come una “non-sconfitta”, nel senso che i vincitori (Di Maio e Salvini) non possono riscuotere la posta, e quindi dovranno acconciarsi a un simil-Nazareno di responsabilità (o meglio, Salvini dovrà acconciarsi, Di Maio dovrà subirlo) per un governo di decantazione della situazione e fondamentalmente — nell’ottica di Renzi — delle magnifiche sorti e progressive delle ambizioni di Salvini e Di Maio.



La necessità di non poter tornare a votare con questa legge elettorale — inefficace ai fini della governabilità e irrappresentativa (come sarà probabilmente sancito dalla Corte) — è un argomento forte a sostegno di questo “ritorno del futuro, prima o poi”. Su questa strada Renzi proverà a tirarsi dietro tutto il partito. Se una parte non dovesse stare al gioco e si sottraesse, e il Pd subire un’ennesima scissione (o anche con un Renzi che esce con i suoi dopo aver fatto “bollire” fino in fondo il “marchio” Pd), il vero campo di gioco di Renzi sarà quello che resterà con lui — o lo seguirà — del Pd e il post-forzismo, la chiusura del naturale ciclo di Berlusconi che Salvini gli ha offerto su un piatto d’argento. Se questo corrisponda agli interessi del Paese o di un pezzo di ceto politico che si ritiene troppo giovane per appendere le scarpette al chiodo sta al lettore deciderlo.

Come nello sconcertante utilizzo della lettera di Paolo, malato di Sla, per dire agli italiani che egli ritiene che la colpa della sua sconfitta è di chi gli ha bucato lo scafo della nave ammiraglia, è intuibile, Renzi pensa di avere a disposizione comunque diverse “fregate” per riprendere la sua personale battaglia navale. Insomma, il mare agitato è il suo elemento. Chissà che ne pensa l’Italia dei più deboli, che gli ha svuotato gli scalmi, per più della metà, della già gloriosa trireme delle europee 2014.