Nel 2013 il centrosinistra non vinse le elezioni: al test numerico proporzionale prevalse di poco sul centrodestra, mentre M5s si collocò sopra il 25 per cento. Soltanto la legge elettorale in vigore e il sostegno di drappelli di parlamentari in uscita dal centrodestra consentì la nascita del governo Letta e poi di quelli Renzi e Gentiloni. Eppure nessuno nel centro-sinistra — soltanto quasi-vincente cinque anni fa — si preoccupò della “tutela delle minoranze/opposizioni”: che erano due, forti e assieme largamente “maggioritarie” in uno scenario di fatto già tripolare. Le presidenze delle due Camere furono entrambe assegnate da subito a due esponenti del centrosinistra. Nessuno dal centrodestra sollevò del resto questioni: i due presidenti della legislatura precedente lasciarono il posto senza discussioni a Piero Grasso e Laura Boldrini. Nessuno, del resto, alzò troppo le sopracciglia nemmeno pochi mesi fa, quando Grasso annunciò a Camere non ancora sciolte che sarebbe stato candidato di una nuova forza politica, seguito a ruota dalla Boldrini.
La questione riguardante le funzioni di garanzia delle presidenze di Palazzo Madama e Montecitorio e delle tutela delle minoranze parlamentari è improvvisamente divenuta d’attualità su alcuni media vicini al centrosinistra, dopo che i leader di M5s e Lega Nord hanno preso a consultarsi sul tema: mancano sei giorni alla prima riunione dei due rami del nuovo Parlamento e la nomina dei presidenti è il primo adempimento della nuova legislatura.
Ebbene: l’ipotesi che i due schieramenti risultati vincenti il 4 marzo (centrodestra e grillini) vogliano concordare le nomine, viene giudicata di per sé premessa per affermare un nuovo diritto para-costituzionale: quello di assegnare una delle due a chi sta “all’opposizione” o come minimo di coinvolgere obbligatoriamente l’opposizione. Ma così come nessuno è ancora “maggioranza”, nessuno si trova ancora “in minoranza all’opposizione”: salvo una generica affermazione preliminare del Pd. Che però — par di capire — varrebbe una prima poltrona “di garanzia” alla Camera o al Senato: o almeno un diritto di indicazione in rosa o di veto. Poco conterebbero quindi le prassi della seconda repubblica, dove le funzioni di garanzia alle presidenze parlamentari sono state assicurate da vicepresidenze-contrappeso.
Non sembra peraltro calzare appieno un precedente storico della prima repubblica, molto citato in questi giorni: quello del 1976. Le elezioni politiche di quell’anno, proporzionali, ebbero “due vincitori” secondo le parole di Aldo Moro. E ad essi — Dc e Pci — andarono le due presidenze: al Senato Amintore Fanfani, alla Camera per la prima volta un leader comunista, Pietro Ingrao. Non si trattò, è vero, di designazioni tattiche ed estemporanee: in quella legislatura breve e convulsa (si è ricordato ieri il quarantennio del rapimento Moro) prese forma il primo governo di “compromesso storico” (Andreotti-1 con la “non sfiducia” del Pci). Ed è stato sulla scia lunga e complessa di quest’esperienza che la presidenza di Montecitorio rimase poi per 13 anni a Nilde Iotti: anche quando il Pci (poi Pds) tornò all’opposizione, restando tuttavia l’indiscussa seconda forza politica del Paese.
I “due vincitori” del 4 marzo 2018 — soprattutto la Lega — non hanno il calibro storico-politico dei partiti vincitori del 20 giugno 1976. Non hanno ancora deciso se dar vita a una vera e propria maggioranza a sostegno di un possibile governo, sbocco ritenuto anzi poco probabile dagli stessi interessati. M5S forse più della Lega non dispone nelle proprie fila parlamentari di figure esperte e autorevoli per il ruolo come lo era Ingrao. Non c’è neppure sul tavolo una prospettiva politica minimamente assimilabile alla svolta del “compromesso storico”: è questo è certamente un problema, forse il problema.
Può darsi che una figura come Emma Bonino — uscita eletta, ma nettamente perdente dal voto — possa costituire una sorta di “riserva della Repubblica” in una fase di estrema delicatezza per il Paese. Né si può escludere che il presidente del Senato (magari assieme al collega neo-eletto alla Camera) possa essere chiamato dal Quirinale e gestire una fase esplorativa o addirittura a guidare un futuro governo istituzionale. Ma porre la questione del “presidente d’opposizione” alla Camera e Senato in termini improvvisati, astratti e zoppicanti sotto ogni profilo politico-costituzionale non sarebbe certamente un buon esordio per il “nuovo Pd” in transizione. Due settimane fa ha incassato su base proporzionale il 19 per cento dei voti: la Dc nel ’76 arrivò al 38 per cento e il Pci al 34 per cento. Questo è il problema del Pd. Che non va confuso con il problema di dare al nuovo Parlamento assetti e funzionalità utili a formare un governo per affrontare i problemi del Paese.