“La sinistra resti dalla parte delle sue idee”: giusto; si apra “Un cantiere per ricostruire la sinistra”: giustissimo; non cada “La sinistra… nell’inganno di un’alleanza”, e dunque? il Pd all’opposizione senza se e senza ma?
Questa strategia oppositiva non solo è stata annunciata da Renzi e da un gruppo dirigente del Pd che mostra di non saper più che pesci pigliare, ma viene anche promossa da chi ha preso sul serio il risultato elettorale, da qualche tempo aveva cominciato a disapprovare la direzione di Renzi e, però, dubita della possibilità di addomesticare il M5s ai riti degli arcana imperii.
Tutto questo sarebbe comprensibile. Se non fosse che questa strategia viene sollecitata nel superiore interesse della sinistra, nel nome dell’orgoglio per il suo passato e per le sue idee. La prima domanda da porsi è, allora: di che cosa e a chi parla questa strategia? Della o alla sinistra? Oppure del o al Pd?
Questa orgogliosa strategia d’opposizione muove dal presupposto che la sinistra alberghi ancora nel Pd. Ma è proprio così? A rifletterci bene, un osservatore disincantato direbbe proprio di no.
Nel tempo in cui si celebra la morte delle ideologie, la distinzione tra destra e sinistra passa da quel che una forza politica fa, e non dalla qualità che si auto-attribuisce o dalla retorica che spende. E su questo piano dei “fatti” non sembra proprio che la politica del Pd abbia ancora molto a che spartire con la sinistra, e con l’orgoglio del suo passato.
Cose buone il Pd ne ha fatte nel campo dei diritti civili. Ma queste sono battaglie di civiltà, che è bene che la sinistra si intesti, ma che non sono quelle che ne definiscono l’identità.
Sul piano dell’economia e della politica, invece, le cose che ha fatto il Pd esibiscono un segno diverso. Due esempi: il Jobs Act e la (tentata) riforma costituzionale. Una riforma dello Statuto dei lavoratori era inevitabile: un posto di lavoro semplicemente non si salva per decreto. Ma il Jobs Act è stato una cosa diversa: lo scalpo del residuo potere di lavoratori e sindacato innalzato sulla tenda di un indiscusso potere padronale. Allo stesso modo, la Carta costituzionale non sempre funziona al meglio. Ma l’aggiornamento che ne era stato concepito camminava insieme con la legge elettorale, l’Italicum, e l’uno e l’altra, messi insieme, seguivano le tracce del famoso Report commissionato dalla Commissione Trilaterale diretta da Zbigniew Brzezinski, il quale quarant’anni fa già annunciava che “la democrazia non si cura con più democrazia”: il che è una strategia seria, ma non proprio di sinistra.
Tutto questo si dice non per demonizzare il Pd, ma solo per ricordare che la sua politica, quella che si mostra nei fatti e che sola ne definisce la qualità, stenta molto a farsi dire di sinistra. È, sul versante dell’economia, una politica ordo-liberale che, barcamenandosi, ha puntato solo sulla crescita. Una politica, dunque, che si può condividere o no, ma che nessuna persona sensata può ricondurre al riformismo di sinistra. E questo non a far data da Renzi (che vi ha aggiunto gesti e simboli, che pur non contano meno dei fatti), ma già dai tempi di D’Alema e Bersani: questo, e non altro, significa lo scavalco elettorale di LeU.
Tutto questo mostra, però, la contraddizione in cui rischiano di cadere quanti propugnano la strategia oppositiva, di cui all’inizio si diceva. Da un lato, enumerano con grande rigore analitico tutti i luoghi ove è maturata la clamorosa sconfitta del Pd: aver dimenticato l’eguaglianza e la lotta alla povertà, aver abbandonato le periferie per i centri storici eccetera. Dall’altro, sembrano invocare la fedeltà a quella politica cosiddetta riformista del Pd, che ne ha fatto il partito di una sinistra omeopatica, dove il principio attivo è stato tante volte diluito che alle analisi non se ne trova più traccia. E poi che “orgoglio” della sinistra è mai quello che guarda, ammirato, a Macron e si chiede se Calenda ne possa ripetere le gesta: persone rispettabilissime certo, ma nella cui testa le “idee” della sinistra (tanto di quella di un tempo che di quella, si spererebbe, a venire) non hanno mai girato.
Questa strategia, allora, non si rivolge alla sinistra, ma solo al Pd. Solo che, rivolta al Pd, è sì comprensibile, perché traduce la delusione e lo spirito di rivalsa che la sconfitta inevitabilmente produce; ma non sembra politicamente efficace e non è del tutto sincera. Non è efficace, perché, se Lega e M5s non danno di testa, la loro risposta non può che essere quella delle elezioni anticipate, che fa immaginare la fagocitazione di Forza Italia ad opera di Salvini e un’ulteriore emorragia del Pd verso M5s. E non è fino in fondo sincera, perché, richiamando alla fedeltà verso gli elettori, tuttavia dimentica che questa fedeltà era stata già disattesa dai governi Letta, Renzi e Gentiloni e che, perciò, se proprio la si dovesse invocare, imporrebbe di riferirla a questo recente passato, sullo sfondo del quale il voto è stato chiesto e dato.
Ma proviamo a immaginare che l’omeopatia funzioni, e che il Pd con essa si curi e si domandi cosa una sinistra, in queste condizioni, avrebbe da fare per preservare le sue “idee” e il suo “orgoglio”.
La risposta porta un vecchio nome, un nome che proprio la sinistra aveva (re)inventato: egemonia. Ovvero una strategia tesa a riconquistare ed estendere l’influenza delle proprie “idee”. Ma cosa dicono queste idee? Cosa dice questo “principio attivo” che si dovrebbe mettere all’opera?
Anche su questo non c’è da fare molta filosofia: chi ha occhi per vedere, ha solo da aprirli. Non c’è più la classe operaia di una volta e non ci sono più i contadini di un tempo. Ma ci sono, e crescono, i precari, gli inoccupati, i poveri, le periferie, anche quelle spirituali, di cui ormai parla solo Francesco. A questi il “principio attivo” della sinistra dice, senza esitazione, di guardare e dice di guardarvi — perché questo solo è il suo senso — rivendicando la priorità delle loro ragioni sulle ragioni dell’economia.
Nessuna persona che abbia a cuore precari, inoccupati e poveri può, oggi, prescindere dalla crescita, ma chi queste ragioni assume a propria identità politica deve anteporvi la seguente domanda: nel mentre si aspetta che la crescita risollevi tutti e si adopera perché questo avvenga, cosa si fa della sopravvivenza, anzi della dignità, di chi ne rimane fuori? Questa domanda — piaccia o no — ha solo una risposta: garantire che tutti costoro, fino a quel momento, abbiano un reddito che preservi il minimo della loro dignità.
E a questa domanda ne segue un’altra: poiché questo è un tempo in cui la rivoluzione della tecnica e l’economia digitale promettono una crescita che sembra si accompagnerà a nuova precarizzazione e più inoccupazione, cosa si farà di quanti, strutturalmente, rimarranno precari e inoccupati? Anche in questo caso il “principio attivo” della sinistra ha una sola risposta: non il basic income, ma la socializzazione del lavoro, ossia — come si comincia a fare in Germania — la riduzione dell’orario di lavoro.
E a queste domande ne segue un’altra e conseguente: poiché non è il caso di far secessione dall’Europa, da dove si prendono le risorse necessarie a garantire un’esistenza appena dignitosa a chi non ce l’ha? Anche in tal caso la risposta è ovvia e ha un nome che nasce con la sinistra: (dopo i tagli) redistribuzione.
Ma questo riferimento sociale, le domande che suscita e le risposte che impone indicano anche verso dove, di necessità, oggi guardare: il M5s, che non è sinistra, ma che della sinistra ha raccolto l’elettorato e che dice alcune cose che alle idee della sinistra dovrebbero appartenere. Verso il M5s, perciò, si ha da esercitare l’egemonia: non per riprendersene i voti, ma per prenderlo in parola, non per appoggiarlo dall’esterno in attesa che cada, ma per proporgli un’esplicita alleanza centrata sulla determinazione di fare subito tutto quello che si può e si deve fare per chi non ce la fa. E poi: chi ha più filo tesserà la tela.
Se l’omeopatia non funziona, allora non resta al Pd che la strategia oppositiva, cui in tanti lo sollecitano, ma preparandosi a nuove elezioni e a un accordo con FI, che, inevitabilmente, prenderà le insegne del moderatismo e della protezione degli “inclusi”. E lasciando stare — per amor di verità — le “idee” della sinistra e il suo “orgoglio”.