La vittoria delle forze euroscettiche alle elezioni italiane è stata uno shock, il maggiore dopo la Brexit. Lo ha ammesso Emmanuel Macron venerdì alla conferenza stampa con Angela Merkel. L’incontro doveva servire a rinverdire l’asse franco-tedesco e rilanciare il cammino verso una maggiore integrazione, invece si è concluso prendendo atto che le condizioni non sono propizie. A frenare è stata la stessa cancelliera alla quale non manca certo il realismo. Nel frattempo, il suo nuovo ministro delle Finanze, il socialdemocratico Olaf Scholz, spiegava al proprio dirimpettaio Bruno Le Maire che sono quanto meno prematuri sia il ministro delle Finanze dell’eurozona auspicato dai francesi, sia il Fondo monetario europeo proposto da Wolfgang Schaüble. Le elezioni tedesche, per quanto meno disastrose di quelle italiane, sono state un richiamo alla prudenza. L’idea di condividere i rischi non passa, gli euroscettici non lo vogliono, gli europeisti la rinviano a tempi migliori.



Non c’è stata autocritica da parte della coppia franco-tedesca, invece sarebbe stata opportuna; tuttavia le loro parole hanno mostrato una certa contrizione. Forse cominciano a capire che la responsabilità per quel che è accaduto, è anche colpa di come l’Unione europea ha gestito la crisi economica e l’emergenza profughi. Sull’immigrazione, l’Ue ha lasciato sola l’Italia. Angela Merkel ha pagato il suo amaro prezzo alla politica della porta aperta e si è mostrata senza dubbio più vicina alle esigenze italiane, ma non è stata in grado di determinare una svolta europea. La Francia ha alzato i ponti levatoi. E non ci sono attenuanti.



Diverso in parte il discorso sulla politica fiscale. Qui le responsabilità sono quanto meno condivise. Il rigore eccessivo, talvolta fanatico, preteso dalla Germania, non copre la debolezza dell’Italia nell’affrontare i suoi problemi fondamentali: il debito e la scarsa crescita, entrambi legati da un unico destino. La flessibilità accordata da Bruxelles è arrivata tardi e come una graziosa concessione, anziché essere il primo passo di una svolta per rendere meno “stupide” (copyright Romano Prodi) le regole di bilancio. Tuttavia, il governo Renzi non ha completato i compiti a casa. C’è un’attenuante: bisognava pensare innanzitutto a uscire dalla lunga recessione, ma non può diventare un alibi.



E adesso? Adesso l’intera partita si complica. È forte la tentazione di dire che l’Italia è più che mai un caso disperato e può diventare una nuova Grecia. Se si va ad altre elezioni in queste condizioni, la spinta anti-europea può solo diventare più forte. Se si fa un governo tra M5s e Lega salta il tetto del 3% nel rapporto tra deficit pubblico e Pil, l’Ue apre una procedura d’infrazione, comincia un aspro braccio di ferro e cresce il coro di chi chiede l’uscita dall’euro. Se governerà il centrodestra le cose non cambieranno molto: non ci sarà una Italexit, ma si andrà a una guerriglia permanente tra Roma e Bruxelles. Un governissimo potrebbe smussare gli angoli per qualche mese, tuttavia la questione europea non sarà accantonata, se non altro perché incombono alcune scadenze, a cominciare dalle trattative sul bilancio comune dei prossimi anni.

Parigi e Berlino potrebbero tentare una fuga in avanti, senza aspettare che l’Italia si gratti le proprie rogne. Ma per andare dove? La riforma della zona euro è rinviata anche per l’opposizione dei paesi nordici. Macron e la Merkel hanno chiuso per il momento questo dossier e hanno aperto quello della sicurezza che parte dal controllo dei confini e arriva alla difesa comune. Ma il paradosso è che proprio qui l’Italia è ancor più essenziale.

Per sorvegliare le frontiere, la Penisola che taglia in due il Mediterraneo ha un ruolo chiave, non averlo capito ha provocato già guai serissimi. Si parla di rilanciare Frontex, ma non si vede come sia possibile senza l’Italia. Lo stesso vale per la difesa europea, anche perché finora l’esercito italiano è meglio attrezzato rispetto a quello tedesco. In più c’è una forte preoccupazione geopolitica: il rischio di spingere Roma verso Visegrad (il patto che lega i paesi centrorientali d’Europa) se non addirittura verso Mosca, è serissimo con gli equilibri politici usciti dal voto del 4 marzo e con l’orientamento finora prevalente nell’opinione pubblica.

Ciò vuol dire che ogni accelerazione può diventare pericolosa, ogni atteggiamento punitivo o esclusivista provoca un effetto boomerang devastante. Non resta altro che temporeggiare, coltivando la virtù della pazienza, far calmare gli eroici furori, coinvolgere nel confronto i partiti usciti vincitori dalle urne, senza bacchettare nessuno, del resto bacchette magiche non esistono e le bacchette da vecchia maestrina provocano solo reazioni negative. Parigi, Berlino, Bruxelles debbono quanto prima aprire un dialogo in vista di un negoziato all’insegna del pragmatismo se non proprio della realpolitik.

Ciò non riduce le responsabilità che gravano in Italia sulle spalle dei vincitori. Economisti saputelli quanto ballerini alimentano false illusioni, politici ambiziosi e con pochi scrupoli se ne sono fatti scudo. Entrambi dovrebbero guardare alla Brexit per la quale hanno stappato champagne. Theresa May non sa che pesci pigliare e si fa strada la prospettiva di restare così, tra coloro che son sospesi, per anni e anni, se non per decenni. Questo sta già creando guai seri al Regno Unito: nei rapporti interni (con Scozia e Irlanda per esempio), in economia, in politica estera, persino in quella militare. Senza trascurare il fatto che con Trump alla Casa Bianca, nemmeno Londra è più sicura dei propri rapporti di dipendenza dagli Stati Uniti. In più, diventa sempre più chiaro che le grandi potenze stanno imboccando la strada di un confronto a tre: Usa, Cina e Russia, che potrà costringere la Nato a impegnarsi in una sorta di doppio contenimento (verso Mosca e verso Pechino).

Insomma, nubi oscure sono già all’orizzonte, ogni falsa sicurezza si dissolve. Non è tempo per colpi di testa, né per peccati d’orgoglio.