Il tempo scorre veloce, ma la sabbia nella clessidra della politica non è ancora finita. A cinque giorni dalla prima riunione delle Camere le carte non possono che restare coperte, anche perché qualsiasi intesa annunciata con troppo anticipo rischierebbe di essere bruciata. 

Odore di intese, in realtà, non se ne sente. Siamo in una fase di stallo. Tutti i leaders sono in campo, e sembrano avere paura di sbagliare le mosse. Nessuno vuole finire tagliato fuori prima del tempo. Sotto i riflettori restano i due vincitori, Di Maio e Salvini, che si contendono la direzione delle operazioni in questa fase. Si sono sentiti al telefono per la seconda volta dopo il voto e nel riferirne usano la stessa espressione: servono intese “per far partire il parlamento quanto prima”. 



Difficile leggervi di più della consapevolezza delle scadenze che incombono, in primo luogo il Def da varare entro il 10 aprile, che ipotecherà scelte future, come l’evitare o meno l’innalzamento di due punti dell’Iva, previsto dal primo gennaio del prossimo anno, oppure le risposte da dare all’Europa, che sollecita una mini-manovra correttiva da almeno tre miliardi e mezzo di euro. Per discutere di tutto questo serve un parlamento pienamente operativo, con presidenti e uffici di presidenza insediati. 



A rischiare più di tutti nella partita della definizione della guida dei due rami del parlamento sembra essere Luigi di Maio. Per lui è la prova di maturità politica. Dice di non essere ancora entrato nel merito dei nomi, ma l’affermazione appare poco credibile. Dice di volere presidenze di garanzia, ma rivendica per il suo Movimento lo scranno più alto. E a tutto questo accompagna una condizione: no a chi ha conti aperti con la giustizia. No quindi, tanto per capirci, ai due più accreditati candidati del centrodestra per Palazzo Madama, Paolo Romani (condanna per peculato per aver dato alla figlia il telefonino di servizio quando era assessore a Monza) e Roberto Calderoli (per cui non è ancora chiuso il procedimento per istigazione al razzismo seguito alle bordate contro Cecile Kyenge). 



Di Maio, quindi, rende difficile il dialogo con il centrodestra sulla presidenza delle Camere. E con la sua insistenza sul voler essere premier a tutti i costi, rischia di ficcare il Movimento 5 Stelle in un vicolo cieco. Troppe rigidità potrebbero portare a collezionare una serie di no tale da fare restare i grillini a mani vuote su tutti i fronti, mentre serve duttilità per arrivare a un risultato positivo, quale che sia.

La sfinge della situazione pare, invece, essere Matteo Salvini. Nelle sue parole si trova tutto e il contrario di tutto. Dice “mai dire mai” all’ipotesi di un governo con i 5 Stelle, ma anche che spera che il Pd dia una mano per fare ripartire il paese. E nel comunicato sottolinea come nelle trattative per le presidenze agisca “come centrodestra”. Una precisazione che mette in luce il punto chiave delle scelte che il leader leghista ha di fronte: rompere o no il rapporto con Silvio Berlusconi? Restare nell’area moderata per assorbire lentamente Forza Italia in fase calante, oppure giocare in campo aperto, gettandosi il berlusconismo dietro le spalle in un attimo? 

Le difficoltà di Salvini si sono concretizzate nelle parole del suo predecessore alla guida del Carroccio, Roberto Maroni, secondo cui un’intesa di governo fra Lega e Movimento 5 Stelle non è possibile. Salvini in tv ha elencato i numerosi punti di consonanza dal punto di vista programmatico, ma non si è neppure nascosto le distanze, a partire dal reddito di cittadinanza. 

Tutto è quindi ancora aperto, in discussione. Salvini deve subire la pressione degli alleati, Meloni e Berlusconi, che in un eventuale dialogo con i grillini non sembrano affatto disponibili a seguirlo. E di fronte alle rigidità di Di Maio potrebbe essere tentato dal gettare la spugna. Appoggiare (anche se dall’esterno) un esecutivo guidato dal leader grillino equivarrebbe per lui a una sconfitta. Quindi qualunque dialogo passa per un passo indietro di entrambi rispetto a Palazzo Chigi, dove potrebbe essere sostenuta insieme una soluzione alla Cottarelli, o simili. 

Alla fine il richiamo a tener unito il centrodestra ha nella mente di Salvini molte probabilità di prevalere. Ma a quel punto l’arbitro di tutto finirebbe per essere il Pd, spaccato fra chi vuole andare a vedere le carte dei 5 Stelle (a Emiliano sembra essersi aggiunto Veltroni, insieme a un pezzo di intellighenzia di sinistra, un fronte che cresce) e chi (i renziani) preferirebbe una fase di isolamento all’opposizione per riorganizzarsi. Al momento l’ipotesi di consentire la nascita di un governo minoritario di centrodestra appare la più remota, ma la situazione è in rapida evoluzione. 

Se nessuno degli scenari che abbiamo ipotizzato dovesse concretizzarsi, toccherà a Mattarella indicare una via diversa, quella di un governo di scopo, magari di breve durata. Prima di intervenire, però, il Capo dello Stato preferisce verificare se il dialogo fra i partiti porterà qualche frutto. La partita del governo è appena cominciata.