Si apre una settimana decisiva per la definizione dei nastri di partenza delle nuove Camere convocate venerdì, a 20 giorni dal voto, per l’elezione dei presidenti. Davanti a noi abbiamo poche certezze e qualche sensazione. Null’altro. La certezza principale è che nel giro di una settimana, alla luce del nuovo regolamento del Senato (una delle poche riforme istituzionali passate la scorsa legislatura, approvato, nonostante la notevole rilevanza, nell’indifferenza generale) avremo il presidente a Palazzo Madama. Questo perché la nuova normativa prevede che alla quarta votazione si proceda col ballottaggio e a quel punto se il centrodestra ritrova compattezza su un nome solo dovrebbe essere in grado di farlo passare. Altrimenti, se salta la logica di coalizione, il M5s da secondo diventa immediatamente primo, essendo di gran lunga la formazione politica che ha riportato i maggiori consensi.



E qui possiamo già passare dalle certezze alle sensazioni. La sensazione è che fra i due vincitori (Luigi Di Maio e Matteo Salvini) il primo si sia mosso con maggiore determinazione, rosicchiando l’esiguo vantaggio che la Lega aveva nella considerazione del Quirinale. Il quale, non avendo un referente chiaro per l’affidamento dell’incarico, non può che guardare prioritariamente a chi si avvicina di più a tale risultato. Ma se nel centrodestra si torna alla logica “ognuno per sé” Salvini rischia di ritrovarsi aritmeticamente a essere il leader del terzo partito (dopo M5s e Pd) perdendo tutta la centralità che aveva creduto di poter rappresentare come guida del centrodestra. Dalle prime mosse, dalle concessioni che Di Maio ha fatto alla trattativa (niente reddito di cittadinanza nelle sue dichiarazioni post-voto, niente attacchi all’Europa, grande moderazione dei toni e apertura dei contatti a 360 gradi) si percepisce che il leader pentastellato le sue carte per andare a Palazzo Chigi se le intenda giocare davvero, mentre l’impressione che suscita Salvini è di non avere reale voglia di andarci, accontentandosi a questo giro di marginalizzare Forza Italia per “mangiarsela” al prossimo.



Paradossalmente, Salvini per tornare ad assumere un ruolo centrale ha bisogno di ripetere in continuazione il contrario, ossia di voler agire a nome di tutti, collegialmente, etc. etc. Ma Forza Italia ormai ha capito il gioco e farà ogni resistenza possibile a tornare al voto, cercando di ostacolare in ogni modo il leader della Lega.

Ora, il totonomi per il presidente del Senato vuole un leghista favorito. Bocciato (da Salvini stesso) il nome naturale di Roberto Calderoli (a lungo vicepresidente di Palazzo Madama e molto stimato in tale ruolo), quello più accreditato resta quello di Giulia Bongiorno. Ma io terrei d’occhio anche Forza Italia. Di Maio potrebbe infatti avere interesse, per le ragioni di cui sopra, a sostenere un azzurro (Paolo Romani?) per scompaginare i giochi nel centrodestra e d’altro canto anche Salvini potrebbe aver l’interesse a concedere il contentino agli alleati tenendo per sé l’obiettivo principale: la guida del governo. Inoltre proprio in queste ore si vanno definitivamente definendo le composizioni dei gruppi e, a sorpresa, con l’arruolamento di 4 senatori eletti dentro Noi per l’Italia, Forza Italia si potrebbe ritrovare ad avere più senatori della Lega. Però che Salvini ci aspiri davvero a guidare il governo è tutto da dimostrare, come detto.



In ogni caso, è difficile che la Lega possa aggregare intorno a sé i consensi necessari per fare un governo. Forza Italia sembra interessata a fornire più qualche buccia di banana che sostegno vero all’ingombrante alleato, il Pd non appoggerebbe mai un governo a guida leghista e Di Maio non sarebbe certo disposto a rinunciare alle sue ambizioni per cedere il passo a un partito che, da solo, ha preso poco più della metà dei consensi di M5s.

Il governo organico Lega-M5s di cui pure molto si parla, appare poco credibile. Ma una cosa sembra invece possibile. Che Salvini ottenga la promessa di una correzione maggioritaria all’attuale legge elettorale di cui usufruire alla prossima consultazione (per tentare di assumere la guida del centrodestra), e questo potrebbe costituire il movente per concedere una benevola astensione che faccia partire un esecutivo Di Maio, come governo di minoranza o della “non sfiducia”.

Di certo al Quirinale si guarda con attenzione a un’interlocuzione ritenuta inevitabile fra il partito egemone al Sud (M5s) e quello leader al Nord (la Lega), mentre l’idea di un Pd stampella di uno dei due, oltre che poco praticabile, sarebbe foriera di una pericolosa divisione nel Paese. Un esecutivo Di Maio di minoranza è quindi una soluzione possibile, l’unica al momento ipotizzabile di tipo “politico”. È invece altamente improbabile ipotizzare l’operazione inversa, un M5s che dia il via libera con un’astensione al governo del centrodestra. 

Se invece le ipotesi “politiche” dovessero saltare tutte, una dopo l’altra, il Quirinale sarebbe costretto a lavorare di fantasia, individuando un nome super partes da proporre al sostegno di tutto il Parlamento. Di sicuro non sono possibili soluzioni rabberciate come governi “a tempo” di cui pure si è parlato. Il Quirinale non potrebbe mai accettare la formula del “governo-yogurt” e inviterebbe le forze politiche coinvolte o a stringere un’intesa “vera” o a passare la mano all’arbitro del Colle per tentare una soluzione istituzionale di larghissime intese.