Alcuni studenti del liceo “Alexis Carrel” di Milano, che il 4 marzo voteranno per la prima volta, hanno inviato al sussidiario una lettera, rivolgendo ai politici, a tutti, sette domande a tutto campo. Le risposte di Gabriele Toccafondi, sottosegretario al Miur, candidato a Firenze per Civica Popolare, la lista di Beatrice Lorenzin alleata del Pd.



Ciascuno di noi o nella propria classe o nella propria squadra ha amici stranieri. Per questo capiamo che l’integrazione è prima di tutto un compito di ciascuno di noi. Come posso aiutare i miei amici stranieri ad integrarsi? Lo ius soli aiuta a fare questo percorso? Ci sono molte strutture come Portofranco che fanno un bel lavoro per aiutare l’integrazione. Non si può puntare su di esse? Come volete muovervi rispetto ai nostri amici stranieri e a tutti gli stranieri che ci sono? 



Per rispondere alla vostra domanda credo sia fondamentale partire dalla realtà e non da una idea. Spesso sul tema “stranieri” si apre troppo facilmente il tema “sicurezza” e si arriva a slogan. La realtà dice che sono 815mila gli studenti di cittadinanza non italiana che stanno frequentando la scuola italiana, il 9,2% della popolazione scolastica. 6 su 10 sono nati in Italia, sono ragazzi di secondo o terza generazione. Questi numeri dimostrano che il miglior strumento di vera reale integrazione nel nostro paese è la scuola. Ius soli o Ius culturae sono strumenti di cittadinanza, personalmente penso che la cittadinanza sia un percorso di integrazione e lo Ius culturae ovvero un percorso scolastico terminato di almeno uno dei cicli sia fondamentale, si conosce la cultura, la storia, la lingua dell’Italia. L’esperienza di Portofranco e di tante altre realtà che ho conosciuto sono la risposta ad un bisogno di aiuto allo studio che nel stesso momento fanno “integrazione”. Se si parte dal bisogno non ci si chiede che pelle, religione, cultura abbia chi domanda e Portofranco è l’esempio che quando non si usano slogan o ideologie ma realismo si può parlare di persone e non di razze.



Un altro tema che abbiamo affrontato è quello dell’Europa, a cui riconosciamo l’importanza che ha avuto storicamente per l’Italia e che ha tuttora. Infatti vediamo in essa grandi possibilità per il nostro paese e per i giovani come il fatto di potersi muovere liberamente o gli sbocchi lavorativi che offre. Tuttavia ci sembra che l’Europa stia diventando per l’Italia un dover sottostare a norme e sanzioni di paesi più forti che spesso vanno contro i nostri interessi. Come intendete muovervi?

Voi siete la generazione che viaggiando per l’Europa non ha avuto bisogno di passaporti, che ha usato la moneta europea e magari che ha dialogato direttamente in inglese. Stiamo rischiando di perdere tutto questo e di ritornare ai passaporti, alle frontiere e alla lira. Pensare all’Unione Europea come a qualcosa che sta fuori di noi, ad altro rispetto all’Italia è sbagliato. Noi siamo l’Europa, perché siamo uno dei Paesi che ha fondato, oramai più di 60 anni fa, la Comunità europea ma anche perché qui, in Italia, grazie a pensatori e politici come Spinelli e Rossi e poi De Gasperi s’è avuta l’intuizione che solo dall’unità dei popoli europei si potevano superare divisioni e nazionalismi che avevano prodotto due guerre mondiali, il fascismo, il nazismo e lo sterminio del popolo ebraico. Per riscoprire il vero senso dell’Europa non esiste la bacchetta magica, dobbiamo muoverci per ritrovare la ragione profonda del nostro stare insieme agli altri cittadini europei, sentendoci e agendo come una vera unione e non una sommatoria di Stati, dove cioè prevalga la solidarietà e non solo ragioni contabili o finanziarie.

Alcuni di noi frequentano scuole paritarie che ci sembrano portare valore allo Stato: sono di buona qualità e permettono allo stato di risparmiare. Ad esempio guardando i dati della fondazione Agnelli abbiamo notato che molti di esse occupano le prime posizioni della classifica. Se le scuole paritarie portano vantaggi allo Stato, perché non favorirle?

E’ così, concordo con voi. Le scuole paritarie sono un pezzo dell’istruzione pubblica italiana ma per troppo tempo sono state svantaggiate da un pregiudizio ideologico che ha interpretato l’istruzione pubblica come equivalente dell’istruzione statale. Mi piace spesso ricordare che anche la scuola di Barbiana, quella di Don Milani, non era una scuola statale eppure è probabilmente uno dei migliori esempi di istruzione pubblica intesa nel suo significato più profondo cioè come strumento per consentire a tutti i giovani di avere le stesse opportunità nella vita e di superare così le disuguaglianze. Per le scuole paritarie come sottosegretario al Miur in questa legislatura ho fatto molto. Sono state aumentate le detrazioni fiscali per le famiglie e abbiamo incrementato i sostegni diretti. Quello che ora va fatto, quello che farò in Parlamento è di abbattere ancora di più quel muro ideologico che vuole considerare le scuole paritarie come scuole di serie B rispetto a quelle statali o di altre istituzioni. Anche qui occorre meno ideologie e più realismo.

Vi raccontiamo la storia di due nostri amici: Giovanni, laureato in giurisprudenza, ha 35 anni ed è assunto come stagista in uno studio, Giacomo, laureato in fisica con il massimo dei voti, è costretto a viaggiare tra Francia e Germania per fare la carriera universitaria. Pur riconoscendo il valore della possibilità di studiare e lavorare all’estero, questo non può escludere la possibilità di rimanere in Italia nel caso uno lo desideri. Perché molti nostri amici laureati devono andarsene se vogliono avere un lavoro adeguato?

In premessa vorrei ritornare sull’Europa. Non possiamo sottolineare la “casa comune europea” e poi quando i giovani si trasferiscono vederla come matrigna. Molti giovani scelgono di trasferirsi non soltanto perché in Italia manca il lavoro. Dobbiamo però ricordare che abbiamo passato una crisi economica non semplice. Si calcola che fra il 2007 e il 2011 circa un quarto del nostro sistema produttivo sia andato in fumo bruciato dalla grave crisi finanziaria di quegli anni. Oltre 1 milione di posti di lavoro sono stati cancellati. Nella pubblica amministrazione, che vuol dire ospedali, università, centri di ricerca per anni è stato bloccato il turnover: chi usciva per andare in pensione non veniva sostituito. Oggi abbiamo rimesso in moto l’Italia. Il Pil era a meno 2% oggi è a più 1,7%, avevamo 22 milioni di occupati, oggi, dice l’Istat, sono 23 milioni. Ma non basta, soprattutto perché alla crescita quantitativa non è corrisposta una analoga crescita qualitativa del lavoro: quasi la metà di quei nuovi contratti sono a tempo determinato. Che fare? Investire e aiutare chi investe e assume. Industria e impresa 4.0 ad esempio consentono alle aziende di sviluppare grazie alle risorse pubbliche innovazione di processi e prodotti, chi assume under 35 a tempo indeterminato ha forti sconti contributivi e nei nostri Istituti tecnici scientifici siamo in grado di preparare ragazzi che poi nell’80% dei casi trovano lavoro proprio nel settore per cui hanno studiato e si sono specializzati. Analoghi investimenti stiamo facendo sull’università ( fra poco partono le lauree triennali specialistiche) e sulla ricerca. Stiamo cioè ricreando le condizioni di sviluppo su un terreno che era stato desertificato dalla crisi e dalle politiche di quegli anni. Il senso di marcia è stato invertito ora non possiamo correre il rischio che arrivi qualcuno che ingrani di nuovo la retromarcia.

Studiando in questi cinque anni abbiamo capito di quale cultura e tradizione è in possesso l’Italia. Il 50 per cento dei beni dell’Unesco è in Italia. Come si può valorizzare il nostro patrimonio?

Passerò per un visionario ma di fronte alla bellezza la prima cosa da fare è riconoscerla, apprezzarla e per far questo occorrono adulti che te la facciano vedere, te la raccontino, spieghino le opere d’arte o quelle naturali. Poi serve rendere accessibile la bellezza. Fino a qualche anno fa ad esempio Pompei o la Reggia di Caserta facevano notizia solo per i crolli o gli scandali. Ora sono sulle prime pagine di tutti i media mondiali perché esempi di beni culturali aperti, fruibili e quindi volano di sviluppo. Io sono di Firenze, di patrimonio artistico e culturale ne so qualcosa essendoci nato e vissuto dentro. E anch’io, come molti altri, quasi non mi accorgo di quanta ricchezza abbiamo perché la do quasi per scontata. Ecco, forse dobbiamo imparare a guardare al nostro patrimonio con gli occhi di uno straniero, farci stupire ancora e imparare che il primo compito è tutelarlo ma quello che viene subito dopo è valorizzarlo rendendolo accessibile e godibile a residenti e visitatori.

La mamma di un nostro amico fa la centralinista in un’azienda statale e ci raccontava che sono in tre persone a fare il lavoro che potrebbe tranquillamente svolgere una sola persona, con il risultato di allungare i tempi delle operazioni. Perché avviene questo? Perché lo Stato (quindi le tasse dei cittadini) deve pagare tre stipendi al posto di uno? Perché una persona deve fare un lavoro inutile?

Con la riforma della pubblica amministrazione (la cosiddetta legge Madia) un bel passo in avanti lo abbiamo fatto. Ad esempio oggi se c’è un fannullone o un furbetto del cartellino viene subito licenziato e il suo diretto superiore ne paga le conseguenze perché non ha dovutamente controllato. Oppure con la nuova identità elettronica si dialoga con la Pa dal telefonino senza dover andare davanti a qualche ufficio e mettersi in coda. Già oggi la dichiarazione dei redditi arriva precompilata a casa di milioni di contribuenti e da quest’anno verranno inserite automaticamente anche le spese mediche e farmaceutiche grazie al cid che è nella nostra tessera sanitaria. La rivoluzione tecnologica che già ha cambiato le nostre vite (chi di noi va ancora in agenzia per prenotare una vacanza?) sta entrando finalmente anche nella nostra burocrazia pubblica, ci ha messo un po’ è vero, ma la cambierà in profondo. E quindi cambierà anche il nostro rapporto con la Pa e il rapporto dei pubblici dipendenti con gli utenti.

Sempre la mamma del nostro amico ci raccontava che sta nascendo un’azienda di call center privata, ma la sede non sarà in Italia ma in un altro paese perché le tasse per le aziende in Italia sono troppo elevate. Non si possono aiutare le aziende che vogliono nascere così che non siano obbligate ad andare in altri paesi? 

Forse questo dimostra anche che possono essere tre le persone che rispondono al telefono al posto di una ma se il servizio non funziona si rischia di chiuderlo e di passare ali servizio ad una azienda privata che magari sposta tutto in altri paesi. Comunque le aziende possono essere aiutate ma non troppo, perché lo vieta la normativa europea a tutela della concorrenza che esclude aiuti di Stato alle imprese private. Il punto è che l’Ue deve decidersi una volta per tutte. O si fa davvero l’Unione o si rischia di dividerci nuovamente. Facciamo un esempio. L’Embraco ha deciso di spostare la sua produzione di frigoriferi dal Piemonte alla Slovacchia perché lì paga meno tasse e gli operai guadagnano circa il 40% di un operaio italiano. Ma la Slovacchia è aiutata dalla Ue, quindi anche dall’Italia, perché ha un’economia debole ed è da poco entrata nella Ue. Lo stesso discorso si potrebbe fare per alcuni big come Apple che hanno la sede in Irlanda per pagare meno tasse ma lavorano e vendono e fanno guadagni anche in Italia. Questa situazione non è più accettabile perché così si fa concorrenza sleale alle nostre aziende italiane ma soprattutto perché in questo modo si distrugge la capacità di spesa di milioni di famiglie. A chi li venderanno quei frigoriferi in Italia? Agli operai che non hanno più lavoro? Ecco perché serve che l’Europa si dia regoli comuni non solo per determinare il rapporto deficit/Pil ma anche per uniformare le regole fiscali, sociali e ambientali. L’Europa riscopra il suo senso, non un insieme infinito di regole spesso in contrasto con il buonsenso, ma un insieme di popoli, di storie e di culture comuni. Sappiamo che siamo in ritardo e che siamo un po’ ignoranti su molti temi, ma se voleste risponderci ci farebbe piacere. Intanto grazie perché ci avete obbligati a fare un lavoro bello, a scoprire, conoscere e a confrontarci tra noi sui nostri bisogni senza ideologia e scontri.