Il risultato elettorale ha consegnato una posizione dominante a Lega e 5 Stelle, ma i margini di manovra di Matteo Salvini si rivelano inferiori. Infatti Luigi Di Maio in questi giorni sta giocando su due “tavoli” (anche Martina ha dato la disponibilità a un accordo “istituzionale” aggiungendo che per il governo il Pd non è sulla posizione “aventiniana” di Renzi). Invece Salvini sul tavolo della trattativa mette la presidenza del Senato (che il centro-destra avrebbe già dalla quarta votazione) e una possibile rottura con Berlusconi che però lo vedrebbe passare da leader della maggioranza relativa in Parlamento a alleato inferiore del M5s con un 17 per cento destinato a ridimensionarsi da prevedibili defezioni parlamentari.
L’ipotesi-minaccia di accordo di governo Lega-M5s — una sorta di “incontro di Teano” tra il centro-nord leghista e il centro-sud grillino — ha evidente fragilità: Luigi Di Maio rappresenta quel che base ed elettorato leghista chiamano “terronia” e cioè un partito che ha preso voti nel Mezzogiorno promettendo reddito di cittadinanza, 780 euro di pensione minima, assunzioni a tappeto negli enti pubblici. Un accordo di governo con i 5 Stelle avrebbe per la Lega numeri e contenuti precari.
Matteo Salvini ha avuto successo approfittando di Berlusconi non candidabile. Ha riempito questo vuoto di leadership trasformando la Lega in un partito di destra a livello nazionale: non più nel segno dell’autonomismo, ma del sovranismo. Il centrodestra appare però ora più spostato a destra e nella prossima conta elettorale le sue possibilità di crescita — e cioè di penetrazione nell’elettorato moderato e di centro — con la leadership di Salvini appaiono compromesse.
Il M5s ha invece ulteriori possibilità di sfondamento nell’elettorato di sinistra dal Pd a LeU.
Una delle ragioni che è alla base del successo dei grillini — oltre al suo piano di assistenzialismo generalizzato — è stato il fatto che nelle ultime settimane della campagna elettorale tutti i sondaggisti indicavano come decisiva la contesa tra 5 Stelle e centrodestra in una quarantina di collegi del Mezzogiorno. E cioè il Pd al momento finale del voto non appariva più agli occhi degli elettori di sinistra competitivo e argine contro Berlusconi nel centro-sud come si era appena visto nelle elezioni siciliane. Si è quindi registrato uno smottamento dell’elettorato di sinistra che ha puntato sul partito di Di Maio per fermare l’ascesa del centrodestra. La scissione di Bersani e D’Alema è stata un fallimento, ma sufficiente a rendere il Pd meno competitivo: ha ridotto le Regioni rosse a un “colabrodo” e per la prima volta è venuta meno nella mappa del post-voto la “pancia rossa”.
Ora, all’indomani di una sconfitta come quella del 4 marzo, sembrava ovvio che a sinistra si pensasse per prima cosa di tornare a essere un’alternativa credibile al centrodestra a trazione leghista mettendo in moto un processo di ricomposizione unitaria. La sinistra italiana in questi giorni offre invece uno scenario ulteriormente franoso verso il M5s con dichiarazioni di disponibilità da Zingaretti a Emiliano, da Chiamparino a Crocetta, da D’Alema e Veltroni a Martina e Franceschini, dando per scontato il coinvolgimento dello stesso Mattarella.
Anche in Francia e Germania la sinistra ha vissuto la sua Caporetto, ma è stata capace di riposizionarsi come “sinistra di governo” contro l’assalto antieuropeista (e antidemocratico) dando vita a un nuovo movimento in Francia e con una partecipazione di massa ed energico confronto di idee nel congresso-referendum della Spd. E oggi la sinistra francese e tedesca hanno voce in capitolo nella guida e riforma dell’eurozona.
Va però tenuto conto che a facilitare l’egemonia degli estremismi sulla scena politica italiana è il fatto che le élite economiche, come emerge dagli articoli della maggior parte dei loro editorialisti, sono ancora incollate alla tesi: potere politico debole uguale potere economico forte.
In realtà in questi anni di crisi la globalizzazione ha destabilizzato le élite nazionali e, in pari tempo, ha visto scendere in campo coese élite economiche sovranazionali con pretese di eterodirezione. Ma mentre in altri paesi — dalla Germania alla Francia — si è reagito come “sistema paese”, in Italia siamo ancora fermi agli anni 90, alla globalizzazione-“Belle époque”, e cioè si continuano a promuovere con quotidiani e tv campagne di frantumazione istituzionale e di denigrazione della politica per favorire il massimo turnover parlamentare con soggetti sempre più demagogici e sempre più “liquidi”. Dal 1991 si discute di nuova legge elettorale. Un caso unico al mondo. Si va a votare sempre più convinti che non abbiamo di fronte problemi da studiare e da risolvere (con serietà e competenza), ma solo degenerazioni, complotti e imbrogli che richiedono “gente nuova” e che sappia “battere i pugni sul tavolo”.
Il risultato è che in Europa le decisioni vengono prese senza di noi.