C’è un dato politico nuovo che più di ogni altro salta all’occhio alla fine della partita per la presidenza delle Camere: la reciproca legittimazione fra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. La trattativa l’hanno condotta direttamente loro, intessendo una fitta trama di incontri e di telefonate. E al leader della Lega la patente di affidabilità è stata rilasciata nientemeno che da Beppe Grillo in persona, solitamente diffidente all’ennesima potenza nei confronti dei politici esterni alla sua creatura a 5 Stelle.



Nel comporre il complicato puzzle del governo che verrà si riparte proprio da qui, dal rapporto diretto e personale che si è creato fra Salvini e Di Maio. La partita del governo è tutta diversa da quella per gli scranni più alti di Montecitorio e Palazzo Madama, e tutti i protagonisti si sono affrettati a sottolinearlo. Le distanze di partenza fra i programmi dei due raggruppamenti, centrodestra e grillini, sono siderali: conciliare flat tax e reddito di cittadinanza appare come la scalata dell’Everest. In più questa volta la partita coinvolge direttamente i due nuovi protagonisti della politica italiana. E la poltrona in palio è una sola, non due. 



Dal momento che nessuno ha i numeri per fare da solo, la logica politica vorrebbe un passo indietro di entrambi a favore di un terzo nome che possa accontentare entrambi. Ma la cosa è assai più facile a dirsi che a farsi. E si comincia con il rivendicare l’incarico per entrambi: Salvini lo pretende come leader della coalizione più votata, Di Maio come capo della forza politica più votata. 

Per il presidente Mattarella si tratta di uno dei grattacapi più complessi. E prima di sbilanciarsi attende di vedere come il centrodestra si presenterà al Quirinale, se con una unica delegazione capitanata da Salvini oppure separatamente. La scelta appartiene esclusivamente alle forze politiche, il cerimoniale del colle più alto non dà indicazioni, semplicemente prenderà atto delle scelte e modificherà di conseguenza la scaletta dei colloqui. Per capirci, se il centrodestra deciderà di presentarsi unito, sarà ricevuto per ultimo, e già questo sarà di per sé un’indicazione visibile dell’ordine delle precedenze.



Dietro la diatriba tutta interna al centrodestra sta il terzo grande nodo da sciogliere di fronte a un’eventuale governo che veda insieme Salvini e Di Maio, il ruolo che in esso giocherà Silvio Berlusconi. E’ lui il vero sconfitto della partita sulle presidenze, anche se alla fine una sua fedelissima ha conquistato la guida del Senato. Lo strappo di Salvini (l’indicazione della Bernini al posto di Romani) ha sbloccato di forza lo stallo sulle presidenze, e forse in quel momento la guida del centrodestra ha davvero cambiato mano, facendo buon viso a cattivo gioco. 

Berlusconi è nell’angolo. Di fronte a lui un bivio insidioso: continuare a guardare verso un Pd che è chiuso nell’elaborazione del lutto per la sua pesantissima sconfitta, oppure accettare la subalternità alla Lega a trazione salviniana. Lo scontro intestino fra Romani e Brunetta intorno ai rapporti da tenere con il Carroccio 4.0 è emblematico. 

L’ostilità preconcetta dei 5 Stelle per l’ex Cavaliere è difficilmente superabile. Per loro l’interlocutore unico è Salvini, gli azzurri dovrebbero accettare di farsi rappresentare dal leader leghista, altrimenti finirebbero in una posizione di marginalità che difficilmente potrebbero permettersi.

Guida del governo, programmi mal conciliabili e posizione di Berlusconi sono quindi i tre nodi da sciogliere per verificare se un governo giallo-verde potrà davvero vedere la luce. Ne è perfettamente cosciente anche Mattarella: il presidente della Repubblica ha scelto di rallentare i tempi della crisi, che — al contrario — nel dicembre 2016 volle rapidissimi. 

Un vantaggio indubbio per Salvini e Di Maio è che l’attuale capo dello Stato parte davvero senza schemi precostituiti, e pare ben poco incline a gestire alchimie alla Napolitano. Proprio per questo, però, sarà giudice severo delle risposte che avrà su questioni cruciali, come l’aderenza agli impegni europei, o le compatibilità finanziarie dei programmi. Guardia alta anche sulla qualità degli uomini sulle gambe dei quali l’inedita formula di governo dovrebbe camminare. 

Un punto filtra chiaro dal Colle: nessun governo di breve respiro verrà avallato in partenza. L’esecutivo deve poter contare sul numeri certi e robusti, e non dove avere una scadenza, come lo yogurt. E se le risposta che avrà dai suoi interlocutori non dovessero convincerlo, i tempi rallenterebbero ancora. Si aprirebbe la porta a un secondo giro di consultazioni, a un mandato esplorativo (la Casellati sembra perfetta, non essendo né leghista, né grillina), oppure anche a due preincarichi, uno per Salvini e l’altro per Di Maio. A Palazzo Chigi c’è Gentiloni che lavora, per il primo governo della Terza repubblica non c’è fretta e per farlo nascere c’è tutto l’armamentario della Prima a disposizione.