L’Italia del rancore, fotografata dal rapporto del Censis, viene fuori da queste elezioni del 4 marzo 2018 in un modo quasi clamoroso. Non è uno spettacolo edificante, anzi è uno scenario per certi aspetti inquietante, come abbiamo scritto in più di un’occasione. Non si è verificato il cataclisma della fuga dalle urne, ma anche se di poco, a risultati non ultimati, la percentuale di chi è andato al seggio, tra mille difficoltà, è stata del 73,76%, quasi un punto e mezzo in meno del 2013, quando si erano già persi oltre cinque punti rispetto alle precedenti politiche. In altri termini l’emorragia continua, anche se pare contenuta.



È vero, in questa occasione si è votato in una sola giornata, mentre nel 2013 si è potuto andare alle urne per un giorno e mezzo. Ma se si fa un confronto con il 2001, quando si votò in un solo giorno, lo scarto è netto, perché in quell’occasione l’affluenza fu dell’81%.

Era ancora un’Italia che cercava di rispettare la sua tradizione di partecipazione, anche se proseguiva nella sua disaffezione che aveva avuto una prima avvisaglia addirittura nel 1979, un anno dopo la morte di Aldo Moro, quando comunque, in quelle politiche, la partecipazione fu del 90%.



In tutti i casi, in questa situazione del 4 marzo 2018, si è battuto ancora il record storico negativo dell’assenteismo, in cui emerge un paese disgregato e da non confondere con l’assenteismo di altre democrazie, dove è fisiologica una percentuale di lontananza dalle urne.

La democrazia italiana è cresciuta dopo il 1946, uscita dalla guerra e dall’ubriacatura ideologica e tragica del fascismo, con una democrazia partecipata, ricca di corpi intermedi, con partiti che rinascevano, sindacati che acquistavano peso, associazioni che riprendevano quota e quasi rilanciavano l’antica “alleanza democratica” dell’ultimo Ottocento milanese, tra cavallottiani e turatiani, cioè tra riformisti socialisti e radicali, che portò anche alle giornate tragiche del 1898, ma poi alla svolta democratica con Giovanni Giolitti.



Tutto sembra lontano e confuso, anche pensando alle varie interpretazioni del ventennio fascista, dell’intermezzo tragico della storia italiana. Di fatto, dopo l’ultima guerra mondiale e una pace difficile, la partecipazione democratica in Italia comincia a vacillare fortemente con l’operazione del 1992, con la prima demonizzazione della politica, e arriva con l’annientamento per via giudiziaria di un’intera classe dirigente. E così, dopo illusioni e delusioni, si arriva ai risultati di oggi, dove il M5s, il partito di un comico, e la rivolta leghista di Matteo Salvini, diventano protagonisti indiscussi di una svolta politica radicale, di contestazione dura di tutti gli assetti politici nazionali e internazionali a cui l’Italia era abituata.

Di fatto la partecipazione asfittica, l’assenza di corpi intermedi, di partiti politici che lavorino sul territorio, che abbiano visioni e cerchino di risolvere problemi concreti, ha prodotto questa autentica rivolta qualunquistica, che non permette una soluzione di governo credibile.

Per riassumere brutalmente questo quadro politico, registriamo il trionfo di  M5s, il partito fondato da Grillo; il mancato decollo del centrodestra berlusconiano, a ipoteca leghista, con tutto quello che si porta dietro di contestazione all’Europa e a una politica di integrazione e di inclusione; la scomparsa o la marginalità sconfitta della sinistra, che segue il destino che si è già visto in Francia, Spagna e Germania, oltre che nell’America egemonizzata da Donald Trump e dove i Democratici sono in profonda crisi.

C’è proprio da meditare rispetto a questi risultati e a questa disaffezione, mettendo insieme il voto della grande protesta e un assenteismo ormai cronico valutato intorno al 25%. Il problema, sia chiaro, non sta solamente all’interno dell’Italia, ma è ormai un tema generale e tocca tutte le vecchie democrazie rappresentative.

Occorre, però, sottolineare che l’Italia rappresenta più di altri Paesi la grande contraddizione di questi tempi illustrata da grandi economisti non conformisti e da media non legati al “pensiero unico e molto debole”, come si è rivelato da due anni a questa parte anche in altre parti del mondo. La grande contraddizione è rappresentata dal fatto che i “governi nazionali non sono stati capaci di comporre gli sviluppi del mercato globale con gli obiettivi politici e sociali interni”. Parola di Stephen D. King. Parole da ricordare in questo momento drammatico.