Il crollo del Pd nelle urne di domenica, non inatteso, neanche nelle sue proporzioni — punto più punto meno, si era capito che la linea Maginot del 22 per cento era lì per lì per cedere e il problema ormai era non scendere sotto il 20 per cento —, ha una data di nascita e un motivo. La data è il 4 dicembre del 2016, con la sconfitta di un referendum che Renzi si era costruito addosso, perdendolo con venti punti di distacco. Il motivo è il rifiuto di Renzi di sottostare alle leggi della politica, che hanno una loro fisica, contro cui anche il più tonico volontarismo può poco. E il 4 dicembre del 2016 diceva che Renzi doveva passare la mano, non solo al governo, ma anche al partito, per consentire a qualcun altro del suo campo — il centrosinistra — di riorganizzarlo in modo non divisivo. 



Avesse Renzi obbedito alla fisica della politica, oggi il Pd, e in generale il centrosinistra, ivi inclusi i fuoriusciti di LeU, travolti con +Europa della Bonino e i prodiani dalla slavina scesa giù con il Pd al 18 per cento, praticamente il risultato di Salvini, vivrebbero un’altra storia. Magari sempre una sconfitta — nel quadro montante, non solo italiano, di populismi securitari, sovranisti, o di malessere sociale ed economico che non si riconosce più nel “sistema” dato della politica nelle sue connessioni nazionali e internazionali —, ma non di queste dimensioni. Ma tant’è. L’illusione venduta agli italiani e al suo stesso partito, che gli aveva consentito di non piegarsi al verdetto del referendum e di intestarsi comunque il 40 per cento del Sì alle riforme — si è sbriciolata nelle urne di domenica, come volevasi dimostrare. 



Comunque è su quell’illusione, o su quel calcolo, che Renzi ha imposto al suo partito la sua immediata rilegittimazione politica alla leadership del suo campo, la sua voglia di “rivincita” personale, tramite un congresso con rito abbreviato che ha spaccato il partito. Un partito sempre più “personalizzato”, fidelizzato alla sua guida, prima in un congresso bulgaro, e poi con liste che hanno lasciato ai contraddittori interni — avversari nel partito immaginato da Renzi non possono esserci, vanno fuori o con i propri piedi o accompagnati — uno spazio in alcuni casi più vicino a un diritto di tribuna, che a quello di un’opposizione degna di questo nome; opposizione che con i suoi numeri e il suo peso possa essere per il partito una riserva di linea politica, in caso di sconfitta. A questa personalizzazione del partito, con il Rosatellum, si è provato a dare uno strumento elettorale che ne esaltasse l’immaginata centralità politica in un accordo con Berlusconi, che diventasse responsabilità necessaria per dare un governo al paese, nel caso — scientificamente pianificato — che nessuno, in un quadro politico fattosi tripolare, potesse o dovesse vincere. Ma poiché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, a questa strategia sono mancati i numeri, sia dal lato di Renzi che dal lato di Berlusconi, costretto, per altro, per rimanere in una qualche partita di governo, ad aggiogarsi da solo al carro di Salvini, carro che poi avrebbe ben volentieri mollato, come inutile salmeria, per un governo di necessità con Renzi. 



Ora in questa situazione Renzi annuncia le sue dimissioni, però a tempo. E con tutta una serie di paletti. Saranno date effettivamente solo dopo la chiusura della crisi di governo. Lo schema è chiaro e dichiarato. Tenere il Pd saldamente all’opposizione, e lasciare in mano il cerino dell’ingovernabilità, che rischia di discendere per definizione da questo posizionamento del Pd, in mano agli “estremisti” che l’hanno avuta vinta contro di lui, e cioè ai vincitori veri di domenica, Di Maio e Salvini. Si mettano d’accordo per dare un governo al Paese, o se la sbrighino loro, da soli, cercandosi i voti in parlamento, la partita della governabilità; Il Pd farà opposizione per allestire nel frattempo un “congresso vero”, per prepararsi ovviamente — questo è il non detto delle annunciate dimissioni — alle prossime, anticipate, elezioni, dove si potrà tornare a dire agli italiani che senza il renzismo, se non Renzi, questo Paese non si governa. 

Se non è un tentativo di preparare un’altra rivincita, ci somiglia parecchio. Questo almeno deve essere stata, a sentire la conferenza delle “dimissioni” di Renzi, l’idea dell’ex capogruppo Pd al Senato, Zanda, che ha dato voce a quello che pensano in molti, chiedendo dimissioni con effetto immediato, e non differite, effettive solo dopo aver disegnato il quadro politico in cui il Pd dovrà muoversi anche con Renzi “senatore semplice”. Richiamando contestualmente i precedenti illustri delle dimissioni immediate di Veltroni e di Bersani, date con ben altri numeri, e nel caso di Bersani date per altro con numeri di “non vittoria” che hanno consentito al Pd cinque lunghi anni di governo. 

Evidentemente anche nel Pd comincia a farsi strada l’idea che sarà difficile che il partito e la sinistra sopravvivano a questo ennesimo stress test, che si prepara (opposizione, congresso, nuove elezioni, senza magari neanche uno straccio di nuova legge elettorale) sul gradimento del renzismo alla società italiana, e all’agonismo politico del suo leader.