Nella storia della sinistra, le sconfitte (maggiori delle vittorie) sono sempre attribuite ad altri. Di qui narrazioni di tranelli, complotti, intelligenze col nemico ecc. attribuiti ai propri compagni e fratelli.
Nasce da siffatta cultura della propria innocenza e verginità una storiografia fondata sui tradimenti interni. Anche i boyscout di Rignano sull’Arno hanno imparato a sillabare questa litania.
Ieri al Nazareno, con le bandiere del Pd abbrunate, Matteo Renzi non ha voluto rinunciare a questa sceneggiata. Pertanto, ancora una volta si è sottratto, con un orgoglio malriposto, a fare un’analisi seria e ravvicinata delle ragioni di una sconfitta plateale. Ciò non era nel costume dei comunisti che città per città erano abituati a capire dove, e chi, avesse sbagliato.
Questa radiografia tematica e statistica era quanto mai necessaria nel Pd. Infatti dalle elezioni europee del 2014, nelle quali venne confiscato un 40 per cento di consensi, non è stata mai fatta. Renzi non ama discutere né essere discusso. Ma in questo modo ha trasformato la sinistra italiana in un buco nella carta geografica (per la verità, si è venuta omologando alle sinistre di mezza Europa con una manciata di anni di ritardo).
Non sembra che a Renzi gliene importi proprio niente del fatto che da più di un decennio almeno non ci sono blocchi sociali, e il Pd non sia un partito di classe. Si è tramutato in un soggetto che i politologi (quando si trattava di etichettare la Dc o il Psi) chiamavano catch-all-party (partito-pigliatutto), cioè uno strumento che vive solo di elezioni e per le elezioni. Elemento che oggi accomuna il suo Pd ad M5s.
Non volendo attribuire alla sua mediocrità come dirigente politico (invece come premier è stato bravo, lo si deve riconoscere) le molte sconfitte susseguitesi dal referendum sulla riforma costituzionale, non esita a minacciare rappresaglie e annunciare in pubblico l’apertura di regolamenti di conti.
Si capisce che i destinatari sono molti. Dal capo dello Stato Sergio Mattarella al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, dal ministro Franceschini, all’ex segretario della Cgil Sergio Cofferati eccetera. Ha aperto il fuoco contro tutto e tutti tranne che verso sé stesso, cioè la sua ormai proverbiale incapacità. Ma un grande merito gli deve essere riconosciuto: ha mollato (apparentemente) la preda, con le dimissioni da segretario del Pd.
Parlando dal Nazareno si sentiva che Renzi assaporava l’odore del sangue e che la vendetta minacciata gli riempiva il respiro. Con le dimissioni differite (diventeranno operative dopo la formazione del governo) intende tenere fino ad allora il bastone di comando, a meno che l’Assemblea nazionale del partito non lo costringa semplicemente a fare fagotto.
Ma davvero il principio della dittatura della maggioranza da Renzi imposto al Pd senza alcun timore e tremore non ha avuto nessun ruolo nella disfatta del 4 marzo?
Dopo le elezioni europee del 2014 Renzi non ne ha azzeccata una. Ha sempre perso. Dal referendum sulla riforma costituzionale alle elezioni amministrative (locali e regionali) fino a quelle politiche dell’altro ieri. Sul piano dei rapporti internazionali, è rimasto un suonatore solitario. E’ andato un paio di volte a Bruxelles per alzare la voce e percuotere i tavoli con i pugni. Se nella Commissione europea non contiamo nulla è esattamente perché Renzi non ne conosce il funzionamento. Ha scambiato ruoli importanti con la nomina della Mogherini ad uffici che nella politica estera non contano nulla. Molto meglio sarebbe stato insediare propri rappresentanti capaci nelle commissioni che hanno poca immagine ma esercitano poteri decisionali reali.
Quando ha minacciato di fare mancare il consenso dell’Italia a provvedimenti che richiedevano l’unanimità, la Merkel si è limitata a ricordargli che i parlamentari italiani avevano già manifestato l’assenso che Renzi minacciava di negare. Un figura da perecottaro. I rapporti stabiliti con Obama sono stati un flusso di personali scambi di simpatie. Non hanno mai avuto alcun valore politico.
Resta la gestione del partito. Renzi non è riuscito ad evitare l’inutile scissione. Poiché Bersani, come lui, sa scegliere sempre le persone sbagliate, sotto l’ombrello sgangherato del magistrato Piero Grasso hanno raccolto minutaglia. Poco male.
Più grave è, invece, il fatto che demolendo le regole tradizionali con cui gli ex comunisti hanno governato dopo la guerra di Liberazione il loro partito non sia stato in grado di sostituirle con altre regole. Certamente non è agevole trasformare un partito a dominanza classista (operaia e contadina), che rappresentava e organizzava veri e propri strati e corporazioni sociali, in un partito piglia-tutto. Il Pd non è stato governato, ma semplicemente amministrato come una cosca elettorale. Renzi l’ha affidato alle cure di un gruppo di fedelissimi interessati solo al proprio potere di cacicchi e capi-bastone, cioè fornitori e guardie bianche di voti sul territorio.
E’ la ragione per la quale preparando le candidature ha seguito due principi da padroncino delle ferriere.
Il primo: far cucinare un sistema elettorale (quello confezionato dall’on. Rosato) che è semplicemente un aborto scandaloso. E’ stato scritto e concepito per far fuori i 5 Stelle e per rafforzare le oligarchie, cioè gli esponenti dei gruppi dirigenti dei partiti in lizza. Renzi col Rosatellum ha puntato anche a scompaginare i fortilizi dei suoi competitori interni o che avevano acquisito troppa visibilità. Ma la tagliola è stata messa a punto con tale crudeltà da sortire risultati insperati, cioè che neanche ministri dell’Interno e della Difesa come Minniti e la Pinotti venissero rieletti a Pesaro e a Genova. E lo stesso presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha potuto cantare messa nel quartiere romano dove è stato candidato, lasciando l’intera città di Roma in preda a qualunque vandalo.
In secondo luogo, per garantirsi la premiership, ha spostato i candidati al Senato e alla Camera in città e collegi diversi da quelli in cui avevano creato delle enclave elettorali. Ha, quindi, disconosciuto le quote spettanti ai propri competitori interni (come Orlando ed Emiliano). Anche Togliatti e lo stesso suo allievo emiliano, Bersani, hanno sempre preteso che nelle liste elettorali e quindi nelle rappresentanze elette, un centinaio fossero di loro emanazione. Renzi ha replicato questa abitudine.
Quale sia stata la vita di senatori e deputati nell’era renziana l’ha descritto la filosofa Michela Marzano su l’Espresso (28 gennaio 2018). Per la maggioranza degli eletti ciò che conta è il voto. Per loro la democrazia si esaurisce nell’essere rappresentati e, ancora di più, nell’esibirsi in qualche forma che possa essere scambiata per partecipazione, cioè divisione o solo rottura dei moltissimi poteri dello stato. Virtù condivise sono l’incompetenza, il farsi fagocitare nelle logiche di potere, il prevalere degli accordi politici sugli argomenti che si affrontano, la fedeltà obbediente al partito, lo scollamento dalla realtà, la preoccupazione per le liste e per i collegi sicuri per la rielezione. Il resto sono ubbie e festose ambizioni.
Ci sarà, nell’assemblea nazionale del partito convocata ieri da Matteo Orfini, chi avrà il coraggio di alzarsi e dire: caro Matteo, facci una cortesia, dimettiti e basta?