Lo psicodramma del Pd continua. Ce ne sarà fino a lunedì, alla direzione in cui si discuterà delle dimissioni a scoppio ritardato di Matteo Renzi. Attorcigliato attorno ai suoi problemi, spaccato tra un vertice selezionato con cura dal segretario e una base che si assottiglia giorno dopo giorno, il Partito democratico è uscito sconfitto dalle urne e ora appare paralizzato. No ai 5 Stelle e no alla banda Salvini. Sembra che la linea politica sia quella di paralizzare l’intero Paese.
Ma intorno al Pd si sta muovendo qualcosa. Lo spettacolo non è nuovo, si ripete all’indomani di ogni appuntamento elettorale, ed è tipicamente italico: si tratta di una disciplina atletica, il salto sul carro del vincitore. Stando alla direzione dei salti, il vincitore è Di Maio e non Salvini. Nessun tappeto rosso al segretario leghista, nessun capo di Confindustria che gli spalanca le braccia, nessuno Scalfari che lo preferisce al concorrente, nessun Marchionne che parla bene di lui con Donald Trump. Improvvisamente sono diventati tutti grillini, come osservava ieri Il Fatto Quotidiano. L’establishment che li ha schifati fino all’altro giorno ora li coccola. Era successo nel marzo 2017 a Malta tra Berlusconi e la Merkel, che preferiva il Cavaliere impresentabile ai cattivoni dei populisti. È la vecchia regola di scegliere il male minore.
L’establishment ha deciso e ha fatto scattare quella che al Quirinale si chiamerebbe “moral suasion”, cioè una lenta ma inesorabile opera di convincimento rivolta al Pd. Che cosa pensano, i signori del vapore che, come diceva la buonanima di Agnelli, sono sempre filogovernativi a prescindere? Pensano che il Pd è più vicino al M5s, il partito del nuovo proletariato 2.0, che non al centrodestra a guida Salvini. Pensano che un partito che ha governato cinque anni grazie ai voti dei “responsabili” eletti nel 2013 in Forza Italia non può permettersi di non essere responsabile a sua volta. Pensano, o almeno lo sperano tanto, che anche tra i fedelissimi di Renzi qualcuno si renda conto che ritirarsi sull’Aventino per ripicche personalistiche e condannare il Paese a elezioni anticipate in tempi rapidissimi significherà soltanto la tomba per il Pd. E pensano che un nemico, se non riesci a sconfiggerlo a viso aperto, lo devi cooptare nei tuoi salotti, lo devi circuire, lusingare, adulare; lo devi controllare facendogli provare l’ebbrezza del potere finché non cadrà sotto controllo.
I dem ripetono concordi che continuano a schifare il grillismo. Gli sconfitti si scoprono determinanti per qualsiasi nuovo governo e si crogiolano nel ruolo di novelli Craxi tirando per le lunghe. Ma chi un governo lo vuole sul serio, chi deve produrre, fare affari e dare lavoro, ha puntato subito il più debole dei tre poli cominciando un lavorio ai fianchi. Da qui al 23 marzo, quando si riuniranno le Camere per eleggere i loro organi, c’è tempo per smuovere un po’ di macerie democratiche.
E Salvini? Non gli dispiace essere tagliato fuori. Il suo obiettivo ora non è il governo, dove sa che Bruxelles e la Germania non gli darebbero scampo (mentre Di Maio non vede l’ora di pavoneggiarsi sulle scene europee), ma di papparsi Forza Italia. Non è un caso che il leader leghista insista per presentarsi al Quirinale alla testa della delegazione unitaria del centrodestra. Che M5s e Pd si mettano d’accordo, facciano il deprecato governo di salute pubblica a trazione sudista: Salvini si siederà sulla sponda del Po aspettando che si riaprano le urne.