Colpa di una legge elettorale mal congegnata e complessa, di una questione settentrionale a lungo trascurata e di una questione meridionale ancor più incancrenita, il voto del 4 marzo ci ha consegnato un record unico in tutta Europa, e forse anche a livello mondiale: i vincitori delle elezioni – Matteo Salvini, a capo della coalizione più votata, e Luigi Di Maio, leader del partito che ha raccolto più consensi – guidano due forze politiche con accenti sovranisti e protezionisti. Non solo: se alla “coppia di fatto anti-europeista” Lega-M5s aggiungiamo anche Fratelli d’Italia con il suo “tesoretto” del 4%, il 55% degli italiani alle urne ha premiato chi vuol tenere un po’ più lontano il nostro Paese dall’Europa e da Bruxelles.



Dal giorno in cui siamo andati a votare, intanto, la montagna del nostro debito pubblico ha accumulato altri 400 milioni abbondanti (e siamo seduti già sul terzo più grande debito pubblico del mondo, un vulcano di 2.256 miliardi di euro, pari a poco meno del 132% del Pil, dato aggiornato a fine 2017). Stando alla media dell’intero scorso anno (il conteggio è tenuto dall’Istituto Bruno Leoni), ogni secondo che passa il debito cresce di 1.160 euro, cioè 68.700 al minuto, più di 4 milioni all’ora. In pratica, quando la prima delegazione varcherà i cancelli del Quirinale per le consultazioni con il capo dello Stato (presumibilmente verso fine marzo-inizio aprile), sulle nostre spalle ci ritroveremo una zavorra appesantita da ulteriori 3-3,5 miliardi. Il calcolo è presto fatto: abbiamo davanti un mese scarso e il debito pubblico italiano si ispessisce quotidianamente di 100 milioni e passa di euro. Il partito della spesa, sotto varie spoglie, è dunque sempre in azione.



Nella campagna elettorale delle mirabolanti e ingannevoli promesse, il debito pubblico è stato il grande convitato di pietra. Si è parlato di flat tax da introdurre, di redditi di cittadinanza da garantire, di Jobs act da superare, di legge Fornero da cancellare e di proposte per importi superiori ai 100 miliardi (qualcuno, mettendo in fila gli impegni che i vari partiti erano pronti ad assumersi qualora fossero stati scelti dagli elettori per guidare il Paese nella XVIII legislatura, ha calcolato addirittura una spesa complessiva di mille miliardi).

Nelle prossime settimane saremo tutti, ampiamente e giustamente, informati sulle alchimie politiche, sulle possibili e più o meno caleidoscopiche ipotesi di alleanze, desistenze, fiducie e non sfiducie. Intanto, inesorabile, la “pila” stellare del debito (se lo convertite in monete da un euro potrebbe coprire 14 volte la distanza tra la Terra e la Luna) continuerebbe ad allungarsi.



Il nostro è un debito pubblico che ogni anno ci costa una sessantina di miliardi di interessi. Nella legislatura appena conclusa, è cresciuto di 233 miliardi. Non sempre con la stessa andatura. Guardando agli ultimi governi, con Berlusconi il debito cresceva di 165 milioni al giorno, con Monti di 242, con Letta di 202, con Renzi di 116 e con Gentiloni di 100 milioni al giorno (il rallentamento è merito del “meccanico” Draghi, che a un certo punto ha sgonfiato le “ruote” dei tassi e ha riempito alla massima capienza il “bagagliaio” del Quantitative easing).

Ecco il punto. Il tanto salutare e benemerito Qe ha i mesi contati, non tanto per volontà di Draghi, ma perché nel 2019 sulla poltrona della Bce è assai probabile che andrà a sedersi un “falco” come il tedesco Jens Weidmann, governatore dell’austera Bundesbank, ostile a politiche monetarie troppo accomodanti.

Al varco, poi, ci aspetta anche Bruxelles. Anzi, già ieri si sono viste le prime avvisaglie: la Commissione Ue, presentando la valutazione della situazione economica e sociale, delle riforme strutturali e degli squilibri degli Stati membri, per bocca del vice-presidente Valdis Dombrovskis non ha esitato a bacchettare il nostro Paese: “In Italia abbiamo visto che la crescita è rafforzata nel 2017 e ci si aspetta che resti costante anche quest’anno, ma è ancora molto sotto la media europea, il debito è il secondo più elevato dell’Ue e la produttività è bassa”, concludendo che in generale “restano ancora sfide da superare”. La stessa Commissione, poi, è pronta a chiedere quella correzione sui conti pubblici di cui i partiti – come giustamente ricordato proprio sul Sussidiario.net – si sono ben guardati di parlare durante la campagna elettorale.

Infine, mai scordarsi che la speculazione e i mercati finanziari, benchè oggi “dormienti”, restano sempre in agguato, pronti a far scattare le loro micidiali tagliole.

L’ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, sempre ieri su Repubblica, ha ricordato che “i Cinquestelle erano per un aumento del deficit pubblico e la Lega proponeva non solo di non puntare al pareggio di bilancio, come richiesto dalle regole europee, ma anche di sfondare il tetto del 3% del Pil, la più sacra di tali regole. Gli italiani hanno quindi premiato chi sostiene posizioni che non renderanno facile il dialogo con le istituzioni europee”.

Ecco, allora, una modesta proposta. In questo mese di tempo che separa dalle consultazioni al Quirinale, gli aspiranti presidenti del Consiglio e le loro forze politiche sono pronti a mettere nero su bianco l’impegno, come obiettivo di legislatura e come punto qualificante da proporre agli altri partiti, per una seria aggressione al debito pubblico? È troppo chiedere che i modelli virtuosi di gestione della spesa pubblica (ce ne sono ovunque a macchia di leopardo) vengano presi in esame, anche se frutto di governi locali espressione di forze giudicate avversarie, e applicati, con gli aggiustamenti del caso là dove necessari, anche in altre parti del Paese? È possibile auspicare una convergenza, ampia, sull’adozione dei costi standard? Sono immaginabili “larghe intese”, per difendere, diffondere e promuovere, in chiave sussidiaria, quelle esperienze “dal basso” che già attuano un’efficace spending review, facendo risparmiare soldi alle casse dello Stato?

Serve uno sforzo corale, condiviso. Serve coraggio e visione. Anche perché nei prossimi cinque anni (stime Unimpresa) si dovranno trovare un migliaio di miliardi per rinnovare i titoli del debito pubblico italiano…