Pasqua di meditazione per la politica. Mercoledì cominciano le consultazioni al buio perché al momento accordi tra partiti non se ne vedono e neppure ipotesi di accordi, nonostante che i presidenti delle Camere siano stati eletti in 24 ore. Per il governo è tutta un’altra partita. Ma i leader che hanno vinto il 4 marzo un governo lo vogliono davvero?
Matteo Salvini passa le vacanze a Ischia, nel Sud terremotato, al largo — ma non di molto — dalla roccaforte napoletana di Luigi Di Maio. Il segretario della Lega ha fatto intendere che i tempi lunghi non lo spaventano. Vorrebbe aspettare addirittura le regionali del 29 aprile, quelle del Friuli Venezia Giulia. Dice che da Pordenone a Trieste si potrebbe avere una stabilizzazione del quadro politico. Capirai: ha candidato un leghista, Massimiliano Fedriga, alla carica di governatore e un secondo compagno di partito, Pietro Fontanini, come sindaco di Udine. Due vittorie già in cassaforte. E un’altra spallata a Forza Italia, che perde terreno in tutti i sondaggi a livello nazionale.
La Lega sfrutta la popolarità mediatica che le viene dal risultato del 4 marzo. Salvini è uno dei vincitori, è stato abile nella partita che ha insediato Fico a Montecitorio e Alberti Casellati a Palazzo Madama, ha tenuto a bada le rivendicazioni di Forza Italia e ora si presenta come il leader disposto a fare un passo indietro pur di dare un governo al Paese. Dal populismo alla politica, il passo non è facile ma il leghista ci prova con convinzione. Guadagna consensi a scapito di Silvio Berlusconi, che ha chiesto la riabilitazione giudiziaria: una mossa che ha ricordato anche a chi se n’era scordato che i conti del Cavaliere con la giustizia sono lontani dalla chiusura. A Salvini conviene di più continuare a cavalcare il momento di gloria e puntare a elezioni ravvicinate per rafforzarsi ulteriormente, o prendersi in carico un governo dalle prospettive incerte?
La partita di Di Maio è speculare. Anche lui sta tentando la virata dal populismo alla presentabilità politica. Da movimento antisistema, i 5 Stelle sono diventati uomini delle istituzioni, pronti a incamerare poltrone e a tagliare privilegi. La mossa di monopolizzare i vertici della Camera tenendo fuori il Pd è stata molto abile. Se è vero che per sforbiciare le indennità dei deputati è sufficiente manovrare tra presidente, vicepresidenti, questori e segretari di Montecitorio senza passare per l’aula, i grillini hanno la strada spianata per mettere a segno un formidabile risultato da spendere alla prossima campagna elettorale. Quello che ai grandi (e piccoli) partiti non è riuscito in settant’anni di vita parlamentare, riuscirà in quattro e quattr’otto a un pugno di garibaldini che non sono poi così sprovveduti.
Anche senza reddito di cittadinanza, i 5 Stelle potranno dimostrare che basta poco per cambiare le istituzioni. Così ritorna anche per Di Maio la stessa domanda che ci si pone, legittimamente, per Salvini: conviene di più prendersi una responsabilità dai ritorni imprevedibili, o passare all’incasso elettorale in tempi brevi? Non potrebbe essere proprio questo l’obiettivo di un leader che dopo il voto aveva proclamato “prima i programmi e poi le persone”, mentre adesso sostiene “o io o nessuno”?