Dopo giorni e giorni durante i quali i commentatori politici hanno interrogato la sfera di cristallo, a volte magari per vedervi quello che si auguravano o per influenzare l’incerto orientamento dei partiti o per rilanciarne le code elettorali, finalmente qualcosa, forse, si comincia a capire.

La prima cosa che può sembrare dalle dichiarazioni, rese dai leader uscendo dalle consultazioni del Capo dello Stato, è che le esternazioni che ormai da molte settimane si susseguivano non erano poi tanto distanti dalla verità e che, forse, rispondevano, e rispondono, non ad opportunismi tattici bensì a fratture abbastanza profonde ed a strategie abbastanza precise.



Salvini, a nome dell’intero centrodestra, ha detto tre cose di carattere dirimente: ha ribadito, con una forza mai prima esibita, la sua fedeltà all’alleanza elettorale, ha chiesto che l’incarico sia dato ad una “personalità” indicata dalla Lega e ha ripetutamente sottolineato che, però, tale incarico deve preludere ad un governo autorevole. Ha menzionato ancora il M5s, ma — a badarci bene — più per controbattergli che l’accantonamento di Forza Italia è improponibile. E a questa dichiarazione, “concordata parola per parola”, si è accompagnata un’appendice, la “battutaccia” di Berlusconi, che — a pensarci — è altrettanto eloquente. 



Martina sembrerebbe abbia ripetuto, un po’ insulsamente, la solita solfa sull’onere dei “vincenti” di approntare loro una soluzione e sull’inaffidabilità di chi si rivolge contestualmente al Pd e alla Lega come fossero la stessa cosa. Eppure qualcosa di nuovo forse c’è, ed è che non solo non ha — come altre volte — ripetuto ossessivamente il mantra dell’opposizione, ma che ha anche sottolineato, più che altre volte, l’attitudine responsabile del Pd e la sua apertura all’ascolto dei suggerimenti del Presidente, l’una e l’altra cosa incastonandole nello scenario della grave crisi siriana.



Infine, Di Maio ha contratto quello che — nel modo in cui si è espresso — appare proprio un impegno formale a non stare insieme in un governo con Forza Italia, ha apprezzato le aperture di alcuni esponenti del Pd, constatando tuttavia la sostanziale indisponibilità di questo partito, ed ha reso merito alla Lega per la fattiva collaborazione “istituzionale”, rammaricandosi, insieme, della sua irremovibilità a lasciare Forza Italia per dar vita ad un “governo del cambiamento”. Ma questa già eloquente dichiarazione si è conclusa con una precisa presa di posizione sulla indisponibilità del M5s ad un “governo di tutti”.

Se si presta fede a questi “segnali”, le conseguenze non sembrano impossibili da trarre.

La prima conseguenza è che — come si sapeva — il centrodestra è diviso su due linee. Quella leghista, sedotta dall’idea di un “governo del cambiamento” che, pur rinunciando alle promesse di detassazione, conta, principalmente, su politiche di incisiva semplificazione amministrativa, su di una visibile stretta di vite in materia di emigrazione, su qualche significativo aggiustamento della disciplina pensionistica e, soprattutto, su un modo nuovo dello stare in politica. E quella berlusconiana, centrata essenzialmente sulla protezione delle élite e sulla conservazione degli stili e degli assetti consolidati della società italiana. Di nuovo c’è che a prevalere sembra essere stata quest’ultima linea. E che questa prevalenza non sembra dipendere solo dagli “equilibri interni” della coalizione. Tutto si può dire di Berlusconi meno che sia uno sprovveduto e un avventato. Ciò significa che è difficile immaginare che avrebbe portato la contesa fino al rischio della rottura, se non avesse potuto contare su sollecitazioni e rassicurazioni “esterne”, e cioè provenienti da altri attori della rappresentazione.

La rilevanza dei nuovi toni di Martina è maggiore se si considera che sono venuti prima delle dichiarazioni di Salvini e della loro appendice berlusconiana. Anche il Pd — come si sa — è percorso da una frattura, la quale, interpretandola al meglio, corre tra la linea renziana che pensa al “partito della nazione”, ossia ad un definitivo radicamento di questo partito nel centro, liberandolo dalla “zavorra” di reminiscenze socialdemocratiche e situandolo a ridosso dell’establishment. E la linea, che ha così tanti nomi da non averne alcuno, la quale, in modo per lo più confuso, pensa ad un qualche ritorno del Pd alle sue radici di sinistra e ad un qualche accordo col M5s e vorrebbe contare sull’influenza che la sua tradizione, la sua esperienza, le sue competenze e, soprattutto, la forza dei “fatti” (economici ed europei) possono esercitare per rivestire di “rosa” questo “populismo mite”. 

I nuovi toni di Martina sembrano mostrare che anche questa contesa si sia risolta in favore della linea renziana. E che la spiegazione di quest’esito non stia tanto nella circostanza che Renzi controlla gran parte degli eletti e dell’assemblea (la famosa vicenda Prodi docet), bensì nella ben più decisiva circostanza che l’altra linea, quella del “dialogo” col M5s, presuppone una — si sarebbe detto una volta — (capacità di) egemonia che, allo stato, non ha parole e interpreti che sappiano pronunciarle. Ma la prevalsa linea renziana può fare immaginare che da questa parte siano venute le sollecitazioni e le rassicurazioni che hanno spinto Berlusconi a tirare la corda con Salvini. 

Ebbene, se a tutto questo si aggiunge l’indisponibilità del M5s per un “governo di tutti” (e bisogna credergli poiché il contrario sarebbe solo folle), allora la conseguenza non sembra possa essere molto diversa da un governo del legista Giorgetti con l’appoggio di Forza Italia e quello (esterno?) del Pd.

Una sconfitta di Salvini? Abbastanza, e tuttavia non va sottovalutata la “prima volta” di un capo del governo alla Lega rispetto alla prospettiva di un “governo del cambiamento” guidato da un Di Maio (come sarebbe inconcepibile, ed antidemocratico, che non fosse) che finirebbe per prendergli la scena.

Una vittoria di Berlusconi e, soprattutto, di Renzi? Certamente, il “partito della nazione” è dietro l’angolo, visto che Renzi non è personaggio che sa attendere (gli basterà che fare arrivare in aula una legge sullo ius soli per far cadere, quando lo vorrà, un tale governo).

Può il Pd digerire una cosa così? Il digestivo lo ha illustrato bene M. Giannini su Repubblica: “che farebbe un governo grillo-leghista della nostra politica estera?” E poi, ha digerito il Nazareno e Verdini, ha uno stuolo di eletti in cerca di sistemazioni governative e, soprattutto, allo stato non è in grado di concepire altre scelte.

E il M5s? Bisogna riconoscere che, in questo quadro, avrebbe condotto tutta questa vicenda con una intelligenza ed una sagacia che nessuno gli avrebbe mai accreditato: avrebbe fatto tutto il possibile per dar seguito alle indicazioni del risultato elettorale, avrebbe definitivamente smontato le accuse di populismo anti-sistema che prima gli erano rivolte e si accrediterebbe come l’unica forza alternativa di questo Paese in vista di elezioni non troppo lontane (che Renzi sicuramente  non farà mancare).

E per l’Italia? Alcuni risultati ci potrebbero essere: avrebbe un governo, finalmente si metterebbe alle spalle l’equivoco di un Pd di sinistra che da tempo non è più tale (e sembra difficile lo ritorni ad essere), scongiurerebbe la deriva di destra del M5s che inevitabilmente seguirebbe ad un accordo con la Lega e potrebbe sperare che, per la forza delle cose (la spinta oggettiva del suo elettorato e l’essere la sola opposizione di questo Paese), il M5s cominci, magari senza dirlo troppo, a interpretare il ruolo di una nuova sinistra.