Con l’incarico “persuasivo” (più che esplorativo, visto che da esplorare sembra esserci ben poco) affidato alla neo-presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, i quasi vincitori delle elezioni sono ormai con le spalle al muro: mangiare la minestra e intavolare una trattativa seria tra 5 Stelle e centrodestra o saltare la finestra e aprire definitivamente uno scontro istituzionale con il Colle per il quale la porta di un nuovo voto è irrimediabilmente sprangata.
Il boccone appare indigesto per tutti. Eppure, se il presidente della Repubblica ha deciso di insistere su una strada ben tracciata dal risultato elettorale, forse qualche spiraglio — come vorrebbe la ragione delle cose — sembra ancora esserci.
Serve pazienza. Soprattutto con chi ha poco mestiere, ma grandi ambizioni. Soprattutto con coloro che da “urlatori” e da consumati esperti della “denigrazione” devono riconvertirsi, caricarsi sulle spalle il sistema, per poterlo, non “aprire come una scatoletta di tonno”, ma guidare e, se possibile, cambiare.
Un’inversione di rotta e di proposta politica che ha bisogno di buoni consigli e affidabili consiglieri. In fondo tutti gli interpreti, che nelle prossime ore saranno “incoraggiati” dalla senatrice Casellati, hanno fondato la loro ragion d’essere politica sul “cambiamento” e sull’opposizione a qualcosa: sull’anti-comunismo per il primo Berlusconi (e l’anti-Grillo per il secondo), l’anti-immigrati per Salvini, l’anti-sistema per Di Maio e per entrambi l’anti-Pd.
Un “anti” che, oggi, vale il 70 per cento dei consensi e che non potrà essere deluso per mere pregiudiziali ideologiche proprio di quel partito che da sempre si dichiara post-ideologico (quindi, a-ideologico). Pregiudiziali che — stranezze a 5 Stelle — non sembrano valere per Renzi e il “suo” Pd (i gruppi parlamentari sono quasi interamente composti da renziani), nonostante che sia stato — per mesi — l’unico e irriducibile bersaglio della campagna elettorale grillina. Paradossi irrazionali in cui Di Maio — da pesce d’aprile — si è andato a cacciare, rinvigorendo, fra l’altro, le varie anime del Movimento, e non proprio a lui favorevoli, che erano rimaste tramortite dagli 11 milioni di voti raccolti dall’ex steward.
Ma niente in politica è impossibile. E Di Maio, prima di ogni altro, sa benissimo che per lui l’unico modo per raggiungere Palazzo Chigi è quello di legittimare l’intero centrodestra senza esclusioni di sorta. Non servirà alcuna abiura. Né, tantomeno, alcuna plateale ostentazione. Basterà seguire il percorso istituzionale impostato da Mattarella, di cui l’incarico alla presidente Casellati (la grazia e la pragmaticità femminile potrebbero far miracoli…) è solo un primo significativo passaggio.
Del resto, molti sono i modi per riconoscere dignità politica ad ogni “parte” (parola magica del Colle) politica in gioco. Lo stesso “contratto con gli italiani” potrebbe ancora rappresentare una forma chiara, trasparente e istituzionalmente apprezzabile per tessere nuova (e più resistente) tela. Ammoniva l’indimenticabile Pannella: “Non mi interessa da dove vieni, mi interessa dove vuoi andare”.
Da questa perla di saggezza e realismo politico serve ripartire. Magari abbinando alla trovata del “contratto” la carta di un comitato scientifico per il programma di governo di esperti indicati dai 5 Stelle e dal centrodestra. Un primo timido passo di legittimazione reciproca, ma anche di fattiva collaborazione, che potrebbe rivelarsi molto utile per smorzare le tensioni, appianare le diffidenze e dimostrare ai rispettivi elettorati che in Italia non esiste nessun “belzebù”.
Servirà tenacia e prudenza. Intanto, però, sarà indispensabile che il panierino con il quale la presidente Casellati tornerà domani al Colle non rimanga ricolmo dei soliti, stucchevoli, no.