Perché una forza politica che il 4 marzo ha raccolto milioni di voti ancora un decennio fa appannaggio della sinistra storica ha subito appoggiato l’ennesima “guerra umanitaria” euramericana in formato Nato? Dopo cinque giorni commentatori e opinione pubblica, in Italia, faticano a prendere le misure all’endorsement tanto inedito quanto rapido giunto dal leader M5S Luigi Di Maio sul blitz in Siria dei bomber Trump, May & Macron.
Lo stesso Di Maio è entrato poco nel merito della sua pronuncia, motivandola con la necessità di principio di “dare una lezione a un dittatore che usa i gas contro i bambini”. Ma non è questa la ragione sostanziale per cui Usa, Gran Bretagna e Francia si sono mosse, fra l’altro guardandosi bene dal “dare una lezione” ad Assad. I tre leader sono parsi condividere anzitutto distinte esigenze di distogliere l’attenzione da fronti interni in difficoltà, strumentalizzando situazioni esterne.
Macron – alle prese con le piazze piene di ferrovieri in sciopero – sta nel contempo tentando di rendere definitiva la crisi di leadership della Merkel in Europa, probabilmente in chiave di riavvicinamento atlantico. May continua a demonizzare la Russia di Putin senza avere nulla di meglio nel tentativo di uscire dal vicolo sempre più cieco della Brexit. L’imprevedibile Trump non dimentica che il primo bombardamento alla Siria, nel 2017, gli ha fruttato una prima credibilità soprattutto interna (il Medio Oriente fuori controllo resta l’eredità più imbarazzante di Obama). Poi ha preso certamente gusto alla gestione muscolare delle relazioni internazionali nel caso Corea del Nord. Né va infine dimenticata la necessità costante, per la Casa Bianca, di proteggersi sul versante Russiagate con periodiche facce feroci verso Putin.
Perché comunque Di Maio – nel pieno della crisi politica italiana – ha avuto fretta di schierarsi con questi tre leader globali “di destra”? Perché fra l’altro ha solidarizzato con Parigi quando un predecessore recente di Macron – Nicolas Sarkozy – è sotto inchiesta come criminale corrotto per la guerra alla Libia del 2011? Quella “guerra umanitaria”, è vero, ha messo fuori gioco l’Italia di Berlusconi e aperto a Roma una fase di “governi del Presidente” più o meno dominati da un centrosinistra mai vincente al voto. Chissà se Di Maio intravvede sbocchi simili oggi a proprio vantaggio, ma quei bombardamenti – mescolati alle fiammate dello spread – hanno colpito duro anche l’intero sistema-Paese infilandolo in una spirale austerity-recessione da cui non è ancora uscito: non propriamente un precedente di buon auspicio per “Italia18”. La riforma Fornero – che M5S vorrebbe abolire – è figlia di quei bombardamenti, così come l’anti-europeismo cavalcato finora dai grillini anti-sistema. (A proposito: Macron non sta affatto distribuendo ai ferrovieri statali francesi “brioche di cittadinanza”, ma li sta massaggiando con una dura spending review).
Nel frattempo gli opinion maker italiani si sono concentrati soprattutto sull’emergere di un approccio trasformistico nella leadership M5S al difficile tavolo post-elettorale: sull’ansia di Di Maio di accreditarsi come un premier potabile per l’establishment euramericano. Pochi hanno provato a interrogarsi – nel merito – su possibili o forse probabili interventi della Casaleggio & Associati: la holding del M5S, dai contorni tuttora opachi nella governance reale del partito divenuto di maggioranza relativa nel Paese.
Già prima della svolta-Trump, in ogni caso, M5S era accomunata alla Lega in una zona grigia del sospetto di legami con Putin. E a cavallo del voto di marzo, mentre nel mondo ha preso forma il gigantesco caso Facebook-Cambridge Analytica, l’anti-trumpiano New York Times ha puntato i fari direttamente su Davide Casaleggio. Stare con solerzia con l’America First di Trump può essere anche un buon modo per difendersi dalla diffidente America liberal e per lasciare nel contempo a a Salvini la patata bollente di leader politico italiano più russofilo. Una provocazione davanti alla quale il leader della Lega non è tuttavia arretrato di un passo: sapendo di avere alle spalle cinque miliardi. Non di voti, ma di export italiano annuo perduto – in larghissima parte per le imprese del Nord – per le sanzioni commerciali imposte alla Russia fin dal 2014. È una delle ragioni che hanno decretato la “quasi sconfitta” elettorale della Merkel lo scorso settembre: russofoba viscerale l’ex tedesca dell’Est, ormai troppo per i grandi junker industriali bavaresi o renani, per le piccole e medie aziende, per le banche, oltreché per milioni di dipendenti-elettori.