La sentenza che condanna Dell’Utri per la trattativa Stato-mafia, che ha dato plastica evidenza alla posizione di Di Maio, che un governo del cambiamento con Berlusconi non si può fare, e la piccata risposta di Berlusconi che nelle sue aziende i 5 Stelle potrebbero solo “pulire i cessi”, per restare in metafora ha tirato lo sciacquone sulla possibilità di un governo tra centrodestra e 5 Stelle. Salvini alla rottura voluta fin dall’inizio della trattativa da Berlusconi ha risposto che si metterà in campo lui, adombrando la rottura con il Cavaliere richiestagli dai 5 Stelle, ma è chiaramente un passo avanti più nell’Opa sul centrodestra a questo punto, che verso Palazzo Chigi.
L’incarico alla Casellati ha certificato che a destra il governo non si fa. Si fa a sinistra con il Pd? Più in teoria che in pratica. L’incarico a Fico sarà bruciato perché i 5 Stelle non potranno consentire a Renzi la golden share su come, e soprattutto con chi a Palazzo Chigi, si fa il governo. Quindi alla fine, avesse l’incarico o “esplorasse”, Fico sarà “leale” con Di Maio.
Di Maio sì, Di Maio no per Palazzo Chigi sarà tema alle prossime vicine elezioni, dipenderà da come ci arriverà il Movimento dopo il governo del Presidente — l’obbligato governo di “tutti”, di tutte le minoranze vincenti e perdenti uscite dalle urne — e dalla legge elettorale che il parlamento farà, tra le poche cose che avrà in agenda prima del ritorno al voto in autunno o il prossimo anno. C’è solo da sperare che la legge elettorale sia alla francese; doppio turno che alla fine faccia scegliere al Paese chi tra i due primi partiti, e non coalizioni, vuole a Palazzo Chigi. Per il ritorno a governi duraturi che nascano in parlamento da una logica proporzionale gli attori in gioco non hanno alle spalle la cultura politica necessaria, e una condizione strutturale: un elettorato di riferimento non legato alla congiuntura degli umori sociali del momento. Ogni mossa sbagliata può bruciare leadership sempre più avventizie, su cui l’elettore punta più per provarci che per reale credito politico. L’unico che ha capito che il passo indietro personale gli avrebbe dato credibilità non ha caso è stato Salvini, l’unico tra i leader che appare — per il retroterra che ha dietro (alcune regioni decisive del Paese, e alcuni governi locali piuttosto solidi) — più “duraturo” degli altri.
In questa situazione un governo stabile nascerà solo da una tecnologia elettorale; la sintesi politica di maggioranza la faranno gli elettori nelle urne. Proprio per questo c’è bisogno che non sia una sintesi truffaldina di ceto politico, tra premi di maggioranza forzosi e coalizioni posticce, come quella che è arrivata “prima” il 4 marzo. È meglio prendere atto della realtà e far fare il governo agli italiani nelle prossime urne.
Per arrivarci ci vuole un governo del Presidente con un mandato secco: legge elettorale, subito. Paradossalmente potrebbe persino far durare il governo più del previsto. L’incertezza del ritorno in parlamento per larga parte dell’avventizio ceto politico arrivato alle Camere potrebbe dare al governo del Presidente più respiro di qualsiasi altra risicata soluzione “politica” alle viste. Ancora qualche settimana, se non giorni, e vedremo come andrà a finire.