Da quando ha “perso” le elezioni — le virgolette sono d’obbligo in presenza di tanti presunti “vincitori” che non riescono a tradurre la loro “vittoria” in una proposta di governo — il Pd è oggetto di pesanti attacchi da parte della stampa “indipendente” (altre virgolette obbligatorie). Non è esattamente un buon segno: dovrebbe essere compito prioritario di un giornalismo libero e autonomo passare al setaccio tutto ciò che fa e che dice il “vincitore”, chiunque egli sia. E’ dunque necessario anzitutto smarcarsi da un gioco che in queste ore ha già un esito obbligato: la condanna di un Pd che sbaglierà sia se “dialogherà” con i 5 Stelle sia se rifiuterà tale dialogo. E’ una condanna già scritta per creare un alibi ai tatticismi altrui. Al contrario, va detto chiaramente che entrambe le scelte hanno legittime motivazioni. Dialogare significa porsi anzitutto il problema dell’interesse del paese, rifiutarsi significa anteporre l’interesse del partito: la discussione attuale all’interno del Pd riflette un problema reale che va riconosciuto e rispettato. 



Le due scelte, tuttavia, non sono equivalenti. Proprio la sua condizione di responsabile “a prescindere” delle non-scelte altrui, esige dal Pd molta cautela. Il percorso seguito fin qui dal presidente Mattarella è stato lineare: esigere dalle forze politiche di dare un governo al paese. E’ questo, infatti, lo scopo delle elezioni in qualsiasi democrazia rappresentativa. Ma in Italia la democrazia è entrata in crisi a partire dall’inizio degli anni novanta. Da allora l’interesse delle forze politiche a raccogliere consensi è diventato prevalente sul dovere di governare. Ciò è stato a lungo mascherato da un bipolarismo muscolare che ha salvato le apparenze ma non ha garantito la sostanza. Abbiamo avuto governi che hanno governato poco, in funzione di un interesse prioritario per la forza elettorale dei partiti che li sostenevano. Naturalmente, ci sono state anche eccezioni positive e il governo Renzi è stato una di queste. Proprio perché ha governato, neanche troppo male, è stato punito dagli elettori. 



E’ dunque comprensibile che Renzi anteponga oggi l’interesse elettorale al dovere di governare: sembra verosimile che un periodo di opposizione giovi alle fortune del Pd. Fare così, però, significa omologare il Pd ai comportamenti degli altri e condannare definitivamente l’Italia al non governo e, peggio, ad un declino sempre più pericoloso della democrazia. 

I risultati delle elezioni hanno fatto emergere tre forze principali. Due di queste hanno fallito nel tentativo di trovare un accordo, è perciò logico e necessario che la terza forza venga coinvolta. Il presidente Mattarella lo ha fatto emergere con molta chiarezza. E, per quanto possa apparire fastidioso il linguaggio dei 5 Stelle sui due forni, bisogna riconoscere che finora sono stati i grillini a praticare con più coerenza e linearità la logica tripolare imposta dai risultati delle elezioni. Il Pd, invece, è oggi fortemente tentato di chiudere gli occhi di fronte alla realtà e di perseguire i propri interessi rifiutandosi di fare politica. 



L’Aventino è infatti una scelta non politica e cioè una scelta che non si pone una domanda fondamentale: come coniugare il ruolo del Pd e l’interesse del paese. Ma questa scelta non è solo dannosa per l’Italia: è pericolosa anche per questo partito. Se il Pd si rifiuta di fare politica e si omologa totalmente alle altre forze, perde la propria ragione sociale e smarrisce la propria identità. Pagherà perciò un prezzo anche sul piano elettorale. Il Partito democratico non è chiamato oggi solo a decidere su un eventuale governo con il Movimento 5 Stelle, ma anche sul suo futuro.