L’editoriale-saggio pubblicato ieri da Paolo Mieli sul Corriere della Sera ha fornito spunti e interrogativi di prima mano su quanto sta maturando dietro le cortine fumogene delle consultazioni a oltranza fra nuovi vincitori e vecchi vinti dell’ultimo voto.

L’informazione forse più interessante è racchiusa nella citazione di Giuliano Amato: che resta un candidato forte a premier “del Presidente”: probabilmente più forte dei giudici costituzionali Sabino Cassese e Giovanni Maria Flick, a meno che il Quirinale non opti per una nome a sorpresa come ad esempio l”ex ministro del Lavoro, Enrico Giovannini. Non per caso, comunque, Mieli ha associato Amato a Carlo Azeglio Ciampi — un “padre della Repubblica” — in un’appassionata difesa storico-politica dello Stato italiano: per l’ennesima volta descritto come oscuro Leviatano dopo la recente sentenza di Palermo sulla presunta Trattativa fra istituzioni e mafia nei primi anni 90.



In caso di incarico (e l’editoriale di Mieli conferma l’attendibilità dell’ipotesi), Amato non sarebbe tuttavia attaccabile in via principale da questo lato. Lo sarebbe molto di più — 25 anni dopo aver guidato l’ultimo governo della Prima Repubblica — per ragioni politiche più correnti. L’ex sottosegretario alla Presidenza di Bettino Craxi era, com’è noto, il candidato per la successione a Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica nel 2015: si diceva a cementare il cosiddetto “patto del Nazareno” fra Matteo Renzi (che lo ruppe nell’occasione) e Silvio Berlusconi.



Tre anni dopo, alla vigilia del 4 marzo, Amato restava “in riserva della Repubblica” nella prospettiva di una tenuta del Pd di Renzi e di un’affermazione relativa di Forza Italia: condizioni entrambe vanificate nell’urna. Tuttavia il due volte premier (dopo il voto del 1992 e nel 2000, dopo l’uscita di scena di Massimo D’Alema) rimane una rara carta effettivamente giocabile oggi dal presidente Mattarella: è un esponente di governo di lungo corso ancora in attività come giudice costituzionale; e soprattutto è ben conosciuto fuori d’Italia. Lo sarebbero anche Romano Prodi o Mario Monti o lo stesso Enrico Letta: ma, per ragioni diverse, sembrano meno “spendibili” per Palazzo Chigi in Italia 2018.



Amato, naturalmente, avrebbe una strada tutt’altro che spianata davanti a sé. Non per nulla Mieli indica — più o meno “in chiaro” — gli avversari odierni già visibili nel “grande gioco dello Stato”: anzitutto la magistratura, accusata dall’ex direttore del Corriere di perpetrare un’insistita narrazione demolitrice della credibilità delle istituzioni statali. Poi l’ala antagonista di M5s, riassunta con un cognome preciso: quello del direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Ma in modo più sfumato, Mieli non manca di richiamare — nella critica all’antipolitica che certamente farebbe muro contro Amato o contro un “governo del Presidente” aperto a Renzi e Berlusconi — anche settori dell’economia e della società del Nord Italia, che il 4 marzo hanno spostato il loro consenso in modo decisivo verso la Lega di Matteo Salvini.

(Ps: dando respiro alla sua vena di storico, Mieli risale al presunto tentativo di golpe De Lorenzo e alle bombe di Piazza Fontana per scovare le radici velenose dell’ininterrotta leggenda nera che ha avvolto la vita pubblica italiana. Cita Pasolini per accusare i magistrati che troppo spesso si sarebbero fatti irretire dalla poetica del “sapere senza poter dimostrare”, mano a mano che la cronaca inanellava misteri e segreti. Ma certamente pecca di omissione quando dimentica che il più celebre avviso di garanzia mediatico contro “lo Stato” fu consegnato dal Corriere della Sera diretto da Paolo Mieli, una mattina di novembre 1994, quando il premier Silvio Berlusconi si accingeva a presiedere un G7 a Napoli).