Ieri il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al Def, “un Def particolare – ha dichiarato Paolo Gentiloni -, come si dice in gergo, a politiche invariate, che non contiene la parte programmatica delle riforme che spettano al prossimo governo”. In base al Documento di economia e finanza, il Pil 2018 confermerà la crescita del 2017, pari al +1,5%, poi subentrerà un rallentamento nel 2019 (+1,4%) e nel 2020 (+1,3%), visto che sul terreno restano le clausole di salvaguardia e gli aumenti dell’Iva, che se non saranno sterilizzati potrebbero frenare la domanda interna. Quanto al rapporto deficit/Pil, dopo la correzione al rialzo (da 1,9% a 2,3%) a fine 2017 legata agli oneri dei salvataggi bancari, quest’anno si dovrebbe scendere all’1,6%, mentre per il contenimento del debito pubblico in rapporto al Pil, previsto quest’anno al 130,8%, la dinamica resta positiva anche nei prossimi due anni: al 128% nel 2019 e al 124,7% nel 2020.



Al di là dei numeri, questo Def a politiche invariate è un po’ un’occasione persa. Per due ragioni: il Paese fino a quando può permettersi il lusso di andare avanti per inerzia? E soprattutto, l’Italia può permettersi incertezze e confusione sulle riforme, che sono la parte più consistente e decisiva del Documento di economia e finanza?



Le nubi che si stanno addensando all’orizzonte, infatti, potrebbero ben presto invalidare quelle previsioni. Non è solo questione di congiunture economiche che possono cambiare di segno, come in parte sta avvenendo, ma si tratta anche di sfruttare ogni lasso di tempo che l’ombrello della Bce ci concede per “mettere fieno in cascina” (lo ha consigliato, sempre ieri, Mario Draghi dopo il board della Banca centrale europea che ha lasciato invariati i tassi) con riforme utili a consentire al Paese, ancora gravato da uno dei debiti pubblici più alti del mondo, di attrezzarsi per affrontare nuove crisi senza compromettere, da un lato, la sostenibilità dei conti e, dall’altro, le possibilità di crescita.



È vero, il tempo per correggere la rotta non manca: in autunno sarà possibile intervenire in sede di correzione del Def e poi nella fase di stesura e di discussione parlamentare della legge di Bilancio 2019, a patto, però, che si arrivi a un governo e non si debba invece tornare alle urne. Altrimenti, potremmo dover fare i conti con un autunno caldo, specie sui mercati.

Il voto del 4 marzo era stato interpretato anche come una netta bocciatura dei Def precedenti. Un giudizio eccessivo, perché alcune delle politiche messe in atto (i risparmi generati dalla legge Fornero, la spinta agli investimenti di Industria 4.0, il Jobs Act) hanno dato dei risultati. Era tuttavia legittimo attendersi che chi il 4 marzo ha raccolto più consensi desse un contributo alla stesura del nuovo Def, quanto meno utile alla chiarezza su alcuni obiettivi e sui possibili strumenti per raggiungerli. Così non è stato; anzi, sul Documento di economia e finanza, il cui nodo principale resta la sterilizzazione delle clausole di salvaguardia che comporterebbero aumenti dell’Iva deleteri per la nostra già gracile crescita, si è registrato il silenzio assoluto da parte di M5s e Lega, come ricordato da Stefano Folli sulle colonne di Repubblica.

Alla presentazione del Def più che i numeri hanno contato le parole. Quelle pronunciate da Gentiloni e Padoan, rivendicando i successi della loro azione di governo (come è naturale che sia). Ma senza guardare solo nello specchietto retrovisore hanno lanciato un “messaggio in bottiglia” destinato a chi si candida a prenderà il testimone. Ha detto Gentiloni: “Fotografiamo con questo Def risultati molto rilevanti. Il prossimo Governo prosegua il cammino che abbiamo intrapreso. Questo è indispensabile”. E il ministro Padoan gli ha fatto eco: “I dati sulla crescita sono incoraggianti. Noi prendiamo un atteggiamento prudente sulla valutazione quantitativa, ma è mia personale convinzione che la crescita italiana sia ben superiore ai dati che osserviamo. Il Pil italiano può andare almeno al 2%. Non è un numero contenuto nel Def, ma è un numero che io personalmente propongo alla riflessione”.

Alla riflessione di chi? Soprattutto della forza politica – il M5s – che ha finora ricevuto due “fiches” al tavolo della formazione del nuovo governo. La prima con la Lega è stata spesa; quella con il Pd è appesa alla decisione che assumerà la Direzione del Partito democratico giovedì 3 maggio. In pratica, Gentiloni e Padoan hanno messo sul tavolo la carta della credibilità conquistata con Bruxelles: le nostre politiche e i risultati che abbiamo conseguito ci hanno consentito di sfruttare i margini di flessibilità concessi dalla Ue. Un patrimonio, questo, da non disperdere, da non dilapidare, buttando a mare tutto ciò che è stato fatto.

Così, in attesa del 3 maggio e di quel che deciderà il partito di Renzi, Di Maio ha ora sette giorni di tempo per “riflettere” sulle sue parole di ieri: “Se si formerà questo governo non sarà un governo in continuità con il passato, se si firmerà questo contratto di governo, sarà un contratto al rialzo e non al ribasso”. Significa che per il M5s di buono della legislatura passata non c’è proprio nulla? Significa che le carte buone le possono distribuire solo i pentastellati?