È una mezza beffa per Matteo Salvini. Il leader della Lega Nord aveva puntato gran parte delle sue possibilità di arrivare a Palazzo Chigi su quello che nel Nordest chiamano “rebatìn”, che sarebbe il gesto compiuto dai calzolai con il martello per sistemare le scarpe: battono e ribattono. E se non basta, ci mettono un “ribattino” per chiudere l’ultima fessura. Il ribattino leghista, nella circostanza, sarebbe stato il voto in Friuli Venezia Giulia. Il successo di Massimiliano Fedriga, assolutamente scontato, avrebbe consolidato la leadership nel centrodestra del segretario leghista. E avrebbe dovuto suggellare quell’autorità che gli potrebbe consentire di trattare a mani libere per la formazione di un governo con (o anche senza) i 5 Stelle. 



Stamattina saranno aperte le urne regionali che consegneranno l’ulteriore batosta al Pd, che perderà ancora (il governatore regionale uscente era Debora Serracchiani che fino al 4 marzo era vicesegretario nazionale del Pd) a vantaggio del centrodestra a trazione leghista. Peccato per Salvini che l’appuntamento su cui puntava tutto per dare un altro scossone a Forza Italia sia caduto in una palude. Oggi il pallino della crisi non è in mano alla Lega ma al Pd. Sconfitto e bastonato, il partito al momento in mano a Maurizio Martina è tornato al centro della scena con l’esplorazione affidata al presidente della Camera, Roberto Fico. Il reggente Martina ha preso tempo e giovedì riunirà la direzione per valutare l’opportunità di un dialogo con Luigi Di Maio. E ieri sera è tornato in televisione Matteo Renzi, il dimissionario che però controlla ancora una larga fetta di parlamentari. Salvini può pure vincere nell’estremo Nordest a mani basse, ma in questo momento la scena è occupata dai democratici. 



L’odierna vittoria leghista, scontata, è dunque una vittoria di Pirro. Lo sarebbe stata comunque, visto che quello che conta per la formazione del governo nazionale sono le poltrone a Palazzo Chigi e Palazzo Madama, non a Campobasso o a Trieste: quelle non mutano comunque e non garantiscono nulla al centrodestra. Ma la vittoria nordestina perderà ogni eco, anche se la Lega dovesse surclassare il partito di Silvio Berlusconi, perché oggi i riflettori sono puntati su Renzi. Il quale, intervistato (ma non incalzato) da Fabio Fazio, ha detto chiaramente che il Pd non voterà fiducie a Luigi Di Maio. A sua volta il numero 1 grillino ha ribattuto stizzito (“il Pd non riesce a liberarsi di Renzi nonostante l’abbia trascinato al suo minimo storico prendendo una batosta clamorosa”).



In aggiunta, la prospettiva che prende corpo non è quella auspicata dal centrodestra salviniano, cioè un governo di minoranza a guida leghista che vada a cercarsi di volta in volta i voti alle Camere sui vari provvedimenti, ma un esecutivo istituzionale. Il profilo l’ha tracciato ieri un altro democratico rampante, il ministro Carlo Calenda: “Un governo istituzionale serio, aperto a tutti i partiti anche se con figure non riconducibili ai partiti”. È l’obiettivo cui tende anche Silvio Berlusconi, e forse l’approdo cui puntava lo stesso presidente Mattarella, che però non poteva lanciarlo come opzione percorribile senza aver mostrato al Paese che le possibili alleanze politiche centrate sui 5 Stelle erano impercorribili. 

Insomma, le elezioni in Friuli Venezia Giulia dovevano essere un’ordalia, un giudizio dall’alto che investiva Salvini. Invece, in prospettiva nazionale, con tutta probabilità si riveleranno una bolla di sapone anche se contribuiranno ad accentuare la presa del leader leghista sul centrodestra.