Caro direttore,
dopo le elezioni dello scorso 4 marzo, fra le tante buone analisi, ho trovato poche tracce di una risposta che è invece fondamentale per il cammino di ciascuno: che cosa ci fa capire il voto massiccio al Movimento 5 Stelle e alla Lega di quello che Leopardi definiva il “Misterio eterno dell’esser nostro”, ovvero dell’esperienza umana di ognuno?
La scelta del Movimento 5 Stelle rappresenta la tendenza, insita in tutti noi, di supporre che la nostra vita sarebbe più felice se potesse essere più pura, ovvero potesse fare a meno di confrontarsi col male della disonestà e della corruzione degli altri. Si suppone così sia che esistano persone incorruttibili sia che possa essere organizzato un sistema talmente perfetto “da poter fare a meno di essere buoni”. Si tratta di un’istanza più che umana e legittima che, al netto del suo tentacolo ideologico, sfida l’individuo a non arrendersi al male, ma a combatterlo con il bene. Non è dunque questo a preoccupare, quanto l’illusione che esista un assetto della realtà che possa risparmiarci il lavoro della libertà. Se mio marito fosse così, se mio figlio fosse così, se il mio lavoro fosse così, se la mia comunità fosse così: il cosiddetto populismo, che poi non è altro che una forma di messianismo, si nutre di “se” che mettono in soffitta il sacrificio e l’amarezza dell’errore.
Chi vota Lega, d’altra parte, è in fondo convinto che in questo paese, come nella vita, ci sia un deficit di autorità, di scelte forti e anche impopolari che, pagando lo scotto di qualche inevitabile danno collaterale provocato dalla violenza con cui le decisioni coraggiose si affermano, possano davvero riportare ordine nel grande caos culturale, sociale e antropologico del nostro tempo. È la spina dell’autoritarismo che si cela dietro la rosa di una strada apparentemente lineare: tutte le volte che deleghiamo le vie d’uscita dell’esistenza ad un potere di altri, o all’esigenza di acquisirne di più noi, ci ritroviamo a comprendere bene come tutto ciò ci riguardi. Anche in questo caso al fondo c’è una spinta buona, ossia il bisogno che le cose siano chiamate col loro nome, abbiano una dimensione oggettiva che sia un punto imprescindibile di partenza e di paragone.
Comunque tu la voglia mettere la “b” viene dopo la “a”, qualunque cosa tu dica non puoi negare che il giallo sia giallo e il verde sia verde: la necessità che la libertà non stia ferma di fronte al male — espressa dal messianismo — si accompagna in questo modo con l’importanza che tale movimento accada nell’ambito di un’oggettività per cui il giusto è giusto e lo sbagliato è sbagliato, istanza ultima di ogni autoritarismo in famiglia, tra amici o nelle istituzioni.
Entrambe queste aspirazioni hanno come ultimo difetto quello di ambire ad una vita più semplice e, di conseguenza, meno drammatica, meno impegnata con la storia. Di fronte all’avanzata di queste istanze, nella vita come nella politica, lo sdegno e l’arroccamento non ci portano da nessuna parte. In ogni ambito del vivere c’è solo l’urgenza di poter guardare a qualcuno che sta nella storia, con tutte le contraddizioni e le fatiche che questo implica, magari cadendo, sbagliando, ma affermando — dentro tutto — la possibilità di un bene e di un’opportunità. È grazie alla testimonianza che può generare una simile presenza che ogni tentazione può trovare non solo lo spazio per essere superata, ma anche la possibilità di portare frutti buoni e inattesi nella vita di ciascuno, mostrando il legame misterioso col Bene che essa esprime e a cui tutti ci provoca.