È uscito sorridente, quasi beffardo Sergio Mattarella nella loggia della Vetrata al Quirinale, per tirare le somme del primo giro di consultazioni. Con fare professorale e politico insieme ha sbattuto in faccia ai partiti ed alle loro ridicole alchimie tattiche la forza inossidabile di articoli della Costituzione che riportano nell’alveo della democrazia parlamentare i piccoli leader del momento ancora balbettanti ed intenti a mimare un fare maggioritario, inchiodandoli alla logica del proporzionale e alla necessità di un compromesso. Con la realtà, prima che tra loro. Con la verità dei numeri. 



Ma chi ha ascoltato con attenzione l’intervento precedente di Luigi Di Maio ha ben compreso che il sorriso di Mattarella era dovuto anche a ben altro. Il Di Maio europeista e filo Pd di mercoledì è il primo frutto della moral suasion del giurista siciliano. Aria di intesa a sinistra fiutata dai capi della coalizione di centrodestra che si sono affrettati a comunicare l’intenzione di mettere da parte identità e diffidenze per ripresentarsi uniti al Quirinale la prossima settimana per fugare ogni dubbio sulla reale coesione del rassemblement arrivato primo nella tornata elettorale. 



Chiarimento necessario ma forse non sufficiente, perché la mossa del Presidente della Repubblica risente di una influenza eminente, anzi emerita. Si deve infatti, proprio a Giorgio Napolitano, uscito dal colloquio senza dichiarare alcunché ma artefice di una battuta misteriosa, l’orientamento della crisi verso un governo del cambiamento. Corollario non indifferente: l’offerta a Matteo Renzi del ruolo di ministro degli Esteri del nuovo governo. I renziani subito convocati, mentre non si ha notizia di una riunione Pd ufficiale, fingono distacco. Renzi ha detto che non vale la pena incontrare Di Maio. Ha ragione: tanto c’è chi lavora per lui. A destra lo hanno capito e la prossima settimana proveranno ad uscire dall’angolo arrivando addirittura a pregare quelli, pauperisti e ribellisti, che in questi anni li hanno mandati a quel paese.

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