I casi sono due: o Luigi Di Maio a scuola era scarso in matematica, oppure la logica non è il suo forte. L’ultima puntata del suo duello con Matteo Salvini lo rende chiaro: quando dice al leader leghista che “presentarsi al Quirinale con il 37% o con il 17% in ogni caso non fa il 51%”, dimentica che il ragionamento vale a parti invertite anche per lui. E lui, con il suo 32%, rischia di rimanere con un pugno di mosche in mano, perché 32 è pur sempre meno di 37.
I destini della crisi di governo sono appesi a un filo, ma c’è un elemento che rischia di pesare più di ogni altro nell’indirizzarne la soluzione: l’ostinazione del leader grillino nel voler andare a tutti i costi lui a Palazzo Chigi. Vedendo il centrodestra salire al Quirinale per le consultazioni diviso in tre, e sentendo Salvini, Berlusconi e Meloni parlare lingue diverse all’uscita, Di Maio si era illuso di essere riuscito a dividere la Lega da Forza Italia. Ma quella sua frase pronunciata nella Loggia d’Onore, “non riconosco il centrodestra come coalizione”, rischia di essere stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Quel giudizio sprezzante ha reso evidente che il tentativo di spaccare il centrodestra aveva l’intento di mettere Salvini in condizioni di inferiorità. Accettare di fare il numero due. Nelle stanze romane nei giorni scorsi circolava addirittura una lista di ministeri offerti dai 5 Stelle al Carroccio, lista corposa di dicasteri chiave, ma con un punto fermo: Giggino premier.
Allo schiaffo di Di Maio, il centrodestra ha reagito ricompattandosi. Il merito è di Salvini, anche se il copyright dell’idea è della Meloni: presentarsi insieme da Mattarella al secondo giro. Berlusconi, che era in un angolo, e non aveva trovato di meglio che attaccare populismi e dilettantismi a fine consultazioni, ha afferrato al volo l’ancora di salvezza che gli veniva offerta. E il centrodestra ha ripreso a marciare compatto, così da far valere il suo 37%. Che non è 51, ma è pur sempre più di 32.
La ripicca di Di Maio è stata di cercare di riaprire il dialogo con il Pd, in una sorta di riedizione 2.0 della politica dei due forni di democristiana memoria, Lega da una parte e democratici dall’altra, come se fossero intercambiabili fra di loro. Vien da chiedersi se tanta disinvoltura abbia possibilità di successo.
Nei palazzi romani l’interlocuzione con la Lega veniva segnalata sino a pochi giorni fa in fase avanzata, ma il dualismo fra i due leaders al momento si potrebbe risolvere solo con un passo indietro di entrambi rispetto alla premiership. Salvini è pronto, lo ha già detto, Di Maio no. E allora il capo dei 5 Stelle prova a blandire il Pd. Fa cadere il veto su Renzi, dice che “la guerra è finita”.
Sono avances che non cadono nel vuoto, visto che tanto Orlando quanto Franceschini si vanno ad aggiungere a Emiliano nel dire che bisogna riflettere con calma. Martina, invece, continua a fare muro, come Renzi. Anche qui ci soccorre la matematica. Sommando 5 Stelle e Pd al Senato si arriva appena a 161 voti, cioè esattamente la maggioranza assoluta. Per irrobustirla servono almeno gli 8 voti del gruppo delle Autonomie e i 4 di Liberi e Uguali. Ma, in ogni caso, serve il Pd tutto unito, cosa che la ferma avversione del senatore Matteo Renzi per i grillini fa fortemente dubitare. Bisognerà attendere l’assemblea del 21 aprile per scoprire se il Pd si rimetterà in gioco, resterà unito sulla linea dell’opposizione, oppure se si spaccherà. E a quel punto tutto dipenderà da quanti parlamentari seguiranno Renzi.
Mezzo Pd, ad esempio, basterebbe per sostenere dall’esterno un governo a trazione centrodestra, magari con un premier diverso da Salvini, che ha già detto a chiare lettere il suo no ai democratici. Al Senato, infatti, il centrodestra unito ha 137 voti, e il Pd 52. Con la metà di quei senatori si varca la soglia della maggioranza assoluta. E alla Camera al centrodestra mancano 50 voti, con il Pd che ne conta 111.
Che siano elucubrazioni oniriche o meno, si vedrà nelle prossime settimane. Di certo la partita non è chiusa. È comprensibile che Di Maio si incaponisca a voler fare il premier a tutti i costi, in virtù della regola dei due mandati. Ma se il Pd rimarrà fermo sulla linea dell’opposizione, e il centrodestra non si spaccherà, le sue aspirazioni rimarranno deluse. Lui avrà sprecato la sua unica cartuccia, e dovrà in futuro cedere il passo ad altri, ad esempio Di Battista. Al contrario, Salvini si può permettere di aspettare ancora. Se l’ircocervo M5s-Pd dovesse nascere, il centrodestra probabilmente volerebbe nella raccolta dei consensi restando all’opposizione di un governo che probabilmente durerebbe poco, e per il quale il Pd potrebbe pagare un prezzo pesantissimo. Se il tentativo fallisse, potrebbe assecondare un “governo del presidente” per tornare alle urne tra qualche mese, e completare l’annessione di Forza Italia. Di Maio è avvisato. La sua ostinazione potrebbe portarlo ad arenarsi.