Il primo giro di consultazioni al Colle si è chiuso con un nulla di fatto. Questa settimana Mattarella darà il via a un secondo giro di incontri, ma prescindere da M5s e/o Lega, per la formazione del nuovo governo, sarà molto difficile. E visto che l’appuntamento con il Def è vicino (il Documento di economia e finanza va presentato entro il 10 aprile e, dopo l’approvazione del Parlamento, va inviato entro fine mese a Bruxelles), vale la pena cominciare a capire che impatto potranno avere sui nostri conti pubblici i programmi e le idee proposte dai partiti guidati da Luigi Di Maio e Matteo Salvini. In campagna elettorale si è parlato, e tanto, di flat tax, di reddito di cittadinanza, di abolizione della legge Fornero, di maggiori spese per il Mezzogiorno e di più risorse per la sicurezza e la gestione dei flussi migratori. Hanno trovato invece meno spazio nel dibattito pubblico temi delicati come debito pubblico, clausole di salvaguardia, rialzo dei tassi all’orizzonte. Due macigni e un ostacolo sulla via della sostenibilità e della crescita. Ne abbiamo parlato con Ugo Arrigo, professore di Finanza pubblica all’Università di Milano-Bicocca.
Il primo scoglio sarà il Def. L’ipotesi prevalente prevede un rinvio di due o tre settimane nella presentazione del Documento di economia e finanza da parte del governo. Secondo lei, qualora si andasse in tempi rapidi verso la formazione di un nuovo esecutivo, sarebbe meglio che a presentare il Def fosse il nuovo governo?
No, è meglio che lo faccia il governo uscente, a politiche e saldi invariati. I nuovi governi tendono a presentarsi come solutori dei problemi e quindi prediligono politiche di spesa. In questo momento è meglio che non ci siano. Risolvere il problema della povertà o della disoccupazione richiede risorse, e tante. Il vero nodo diventa, dunque, quello delle coperture. Si fa in fretta a indicare quanto spendere, più difficile e lungo è trovare le coperture. Meglio, allora, un Def di transizione. Per gli aggiustamenti programmatici c’è sempre tempo, almeno fino a settembre.
Un altro nodo scorsoio da sciogliere sarà quello delle clausole di salvaguardia: 12,4 miliardi l’anno prossimo e 40 miliardi nel biennio 2020-2021…
Sarà essenziale non attuarle e trovare coperture alternative. Abbiamo già pagato un conto salatissimo. Oggi i nostri conti pubblici sarebbero messi meglio se nel 2011-2013 non avessimo attuato le politiche autolesionistiche che ci ha imposto la Ue. Avremmo un Pil nominale più alto e un gettito fiscale maggiore.
A onor del vero, la stessa Unione Europea in questi anni ci ha anche concesso 30 miliardi di maggiore disavanzo. Ma non le pare che abbiamo usato male questa flessibilità, finanziando nuova spesa corrente più che investimenti?
Questo è un classico. Appena ci concedono un bonus, tendiamo a spenderlo. È quello che io chiamo “il rifinanziamento del figliol prodigo della famiglia europea”. In ogni famiglia c’è sempre qualcuno un po’ più dissoluto. Ecco, agli occhi dell’Europa, noi siamo il cugino prodigo: molto simpatico, ma non meno scapestrato.
L’Europa ci concederà altra flessibilità o abbiamo esaurito i bonus?
Solo se saremo capaci di proporre riforme con effetti positivi sul medio periodo, diciamo sui 2-3 anni. L’Italia ha un settore pubblico enorme, ma troppo inefficiente. La holding dello Stato spende ogni anno più di 800 miliardi, vale a dire il budget di una grande multinazionale globale, utilizzando però strumenti da diritto amministrativo, cioè stando attenta soprattutto alle regole procedurali.
Nella correzione al Def e nella prossima legge di Bilancio potrebbero trovare spazio le politiche programmatiche di M5s e Lega, le due forze politiche che si candidano con maggiore forza a guidare il governo. Reddito di cittadinanza, flat tax, abolizione della Fornero: misure che portano maggiori spese. La Ue non avrà nulla da ridire?
Se si trovano le coperture congrue, l’Europa non avrà nulla da obiettare. Ma, vista la situazione dei nostri conti pubblici, ritengo che sarà estremamente difficile poter inserire queste riforme tutte assieme. Non possiamo permetterci di creare ulteriore disavanzo in una situazione di debito così elevato. Anche perché non possiamo spaventare i sottoscrittori del nostro debito pubblico.
A tal proposito, Salvatore Rossi, direttore generale di Bankitalia, ha rassicurato che “finora non ci sono segnali di vendita dei titoli di stato italiani o di sfiducia nel Paese da parte dei mercati”…
Certo, il vuoto politico è una garanzia. I mercati stanno dando fiducia all’inerzia di un non-governo. Quando si è sull’orlo di un baratro è meglio non muoversi piuttosto che fare il passo sbagliato verso il precipizio. Il problema del nuovo governo è che dovrà dimostrare di poter far meglio del non-governo.
Intanto resta sempre il macigno del debito pubblico. Come aggredirlo?
La priorità assoluta è la crescita. Servono le riforme, ma più che sul fattore lavoro, è il momento di intervenire sul fattore capitale. È importante far ripartire gli investimenti. Dopo anni di crollo, si è registrata una leggerissima ripresa, ma non basta. Oggi gli investimenti lordi riescono a malapena a sostituire gli ammortamenti.
Insomma, bisogna spingere con forza sul pedale della produttività?
Sì. Noi siamo obbligati a esportare perché siamo una nazione manifatturiera obbligata a importare. Per fortuna l’export va benissimo, abbiamo un surplus da ritmi tedeschi. Le aziende internazionalizzate vanno a gonfie vele, e se anche il resto dell’economia marciasse con lo stesso passo, avremmo senz’altro dei significativi miglioramenti nella crescita complessiva del Paese.
All’orizzonte si profila una normalizzazione monetaria, con un rialzo dei tassi. Ciò costringerà a fare delle riforme. Ma si parla di abolizione del Jobs act, di azzeramento della riforma Fornero…
Non si possono fare solo riforme assistenzialistiche. Aiutare chi è in difficoltà o è povero è sacrosanto. Ma il problema è che non va sprecato un euro. Sulla previdenza, per esempio, abbiamo già oggi le aliquote contributive più alte al mondo, che rappresentano una tassa sul lavoro. Le nostre riforme pensionistiche sono sempre state fatte in ritardo e senza mai intaccare l’esistente. Immagini di essere in un ristorante: quelli che hanno già mangiato, sono usciti senza pagare tutto il conto, lasciando l’onere agli avventori che vengono dopo. Abbiamo commesso grossi errori di efficienza, entità ed equità sociale.
Guardando sempre alla sostenibilità dei conti pubblici, come giudica i programmi di Lega e M5s?
Questi programmi, per ora, vanno interpretati come tali, come desideri, e non come agenda.
E qualora lo diventassero?
A quel punto la loro realizzazione richiederà una buona dose di gradualismo. Come per la flat tax, principio su cui in linea teorica sono anch’io d’accordo: ma come si può pensare di introdurre adesso una flat tax al 15% avendo uno Stato che spende il 50% e con un sistema fiscale colabrodo, che ha bisogno di essere ridisegnato da zero e che non riesce a tener dentro nell’imponibile Irpef tutti i redditi?
Salvini, tempo fa, ha dichiarato di essere disponibile a violare il tetto del 3% di deficit qualora dovesse servire “per il bene degli italiani”. Nelle trattative con l’Europa è giusto arrivare al braccio di ferro, un po’ come ha fatto la Grecia della coppia Tsipras-Varoufakis?
Un braccio di ferro non servirebbe al bene degli italiani. Non sarà tanto l’Europa a chiederci il conto, ma lo faranno i mercati, con lo spread, come è già avvenuto nel 2011. Allora i fondamentali non erano messi male, ma i mercati hanno scommesso contro l’Italia. Come in una cordata alpinistica, erano convinti che nella caduta dei periferici ci saremmo stati anche noi.
Meglio, quindi, mostrare capacità diplomatiche. Ma non si rischia di essere troppo arrendevoli?
La Ue non è sempre una controparte né sempre un alleato. L’importante è far capire agli interlocutori europei che nella nostra agenda ci sono riforme, misure, interventi interessanti. Serve, cioè, credibilità. A quel punto, la Ue ci aiuterà proprio quando capirà che non avremo bisogno di lei.
(Marco Biscella)