Un centinaio di righe di condanna preventiva, apocalittica e insindacabile — ancorché non priva di articolazione culturale — della maggioranza di governo in formazione fra Lega e M5s. L’editoriale dell’ex direttore Ezio Mauro, ieri su Repubblica, è parso un documento in sé nella sua ferrea onestà giornalistica, intellettuale, politica. Una manciata di popcorn assai più amaro di quello allegramente evocato da Matteo Renzi, ma non dissimile nel suo negazionismo di fondo di fronte alla svolta politica italiana.
Mauro assunse la direzione del quotidiano-flagship della sinistra italiana nell’aprile 1996, due giorni prima dell’affermazione dell’Ulivo di Romano Prodi contro il primo Silvio Berlusconi. Vent’anni dopo, il successore di Eugenio Scalfari ha passato il testimone a Mario Calabresi nel gennaio 2016: quando Matteo Renzi era all’apice di un’ascesa rapidissima, “progressiva”, apparentemente inarrestabile.
Due anni fa il dream di Repubblica — e di Mauro — sembrava avverato: forse definitivamente. Nella stanza dei bottoni di Palazzo Chigi si era insediato il leader del Pd, cioè del partito-sintesi fra la tradizione della sinistra marxista (faticosamente evoluta in senso riformista dopo la caduta del Muro) e quella cristiano-democratica: l’Italia narrata e voluta da Repubblica. Il ventennio berlusconiano sembrava archiviato nella sua “anomalia” e l’Italia di quel Pd — con tutti i suoi acciacchi socio-economici — pareva comunque in equilibrio fra l’America globalista e politicamente corretta di Barack Obama e l’Europa rigorista co-governata da Angela Merkel e Mario Draghi.
Settecento giorni dopo, lamenta e denuncia Mauro, siamo invece all'”anno zero”. Il 70 per cento degli italiani ha votato per le “destre”, taglia corto il direttore emerito di Repubblica, con accenti sprezzanti, di rifiuto assoluto. Toni, tuttavia, inevitabilmente deboli sul piano della narrazione: o dell'”analisi”, per usare una categoria cara al vecchio Pci.
Dal febbraio 2013 al 4 marzo 2018 il Paese è stato governato ininterrottamente dal centrosinistra: che pure — un po’ a sorpresa — aveva “non vinto” le penultime elezioni politiche e ha quindi dovuto ricorrere al sostegno di vari transfughi dal centrodestra (a cominciare da Angelino Alfano e Denis Verdini). Certamente per mille giorni — dal febbraio 2014 al dicembre 2016 — Renzi ha esercitato la premiership in condizioni uniche in prospettiva storica. Anzitutto: un non parlamentare, Renzi, investito solo dalle pittoresche primarie all’italiana del Pd e poi da qualcosa di non molto dissimile, come le europee 2014.
Bettino Craxi fu un politico professionale capace di rimanere capo del governo senza interruzioni più a lungo: ma era il leader di un partito forte di meno del 14 per cento e condivideva la maggioranza con la Dc che pesava il doppio e altri tre partiti. Giulio Andreotti fu premier sette volte, ma non fu mai un monocrate come di fatto è stato Renzi negli ultimi quattro anni (e Giulio Evangelisti non ha mai avuto il peso di Maria Elena Boschi). Né Amintore Fanfani né Aldo Moro hanno mai avuto la libertà d’azione di cui ha goduto Renzi, pur essendo al timone di svolte politiche del massimo rilievo. Forse neppure il padre dell’Italia repubblicana e democratica, Alcide De Gasperi, ha potuto contare nei suoi otto governi sui poteri garantiti a Renzi, fra l’altro, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ecco: Silvio Berlusconi è stato premier fra il 2001 e il 2006, ma sull’onda di un massiccio successo elettorale e anni dopo la sua discesa in campo. In ogni caso: perché il dramma (vero o presunto) dell'”anno zero” per l'”Italia di Repubblica“?
Mauro, in cento righe, si dispera ma non riesce a spiegarlo. Cita due volte il premier ungherese Orbán, ma mai una volta Renzi. E forse il problema sta qui ed è lo stesso di Renzi (peraltro denunciato dal premier uscente Gentiloni: “E’ fuori dal mondo prendersela con gli italiani perché non ci hanno votato”). L’ultima accusa dell’editoriale ai “populismi” candidati a governare il Paese — con una forza parlamentare del 70 per cento democraticamente conquistata — è quella di “suprematismo”. Non fa che suggerisce un interrogativo: se la sempre autonominata sinistra ufficiale italiana abbia definitivamente rotto con tutti i suoi residuati novecenteschi, dal centralismo leninista al “suprematismo morale” dell’azionismo laico.