Il nuovo governo che si delinea in Italia sarà un governo elettorale ovvero un governo rappresentativo. Un governo fondato sul principio di maggioranza, su cui un grande maestro, Francesco Ruffini, scrisse un testo fondamentale che un altro grande maestro dell’università torinese, Alessandro Passerin d’Entreves, ci leggeva e ci commentava con quell’ispirazione immensa che non poteva non avere colui che dall’esilio antifascista di Cambridge scrisse un capolavoro sul pensiero politico di Dante. Del resto Francesco Ruffini, cattolico e liberale era stato uno dei soli undici professori universitari che avevano rifiutato di giurare fedeltà al regime fascista. Una grande tradizione, quella del parlamentarismo italiano, da tenere a mente, ora che un governo eletto si profila all’orizzonte, oggi, in un ecosistema politico in cui via via al voto popolare non ci si pensa più.
Dall’Europa di oggi del resto non promanano leggi ma direttive, ossia una serie infinita e costituzionalmente indefinita di droits acquis, come li definiva Alberto Predieri, droits acquis che via via invadono e ostruiscono le procedure della vita parlamentare nazionale che in una libido ossessiva troppo spesso si limita a trasformarle in leggi dei parlamenti nazionali. Ma basta questa legiferazione indotta e convulsa a fondare una nuova legittimità? L’Europa a funzionalità né federale né confederale a sovranità sottratta e non condivisa è una sorta di biblico Behemoth che sguazza in un fango tecnocratico ordoliberista. Ora la patria di Dante dà vita — tra mille pressioni, giochi di specchi, cadute di borsa artefatte, spread minacciati e non esplosi — dà vita a un governo a cui gli italiani non sono più abituati: un governo che nasce dal voto pur con tutte le debolezze di una legge elettorale alchemica e anemica, portatrice di caos.
Ma tant’è! Governare con la legittimità popolare può essere una forza immensa enorme. Di qui una grande responsabilità dei giovani capi politici che saranno chiamati a formare un governo.
L’Europa tecnocratica e delegittimata si sentirà ferita da questo italico ritorno alla democrazia parlamentare. Siano pronti alla battaglia.
Ma anche alla battaglia per salvare ciò che rimane del suo significato. I due giovani leader dei due partiti più votati devono impegnarsi affinché l’Europa, insensatamente preoccupata di un “populismo” che lei stessa ha provocato, non incrini i suoi rapporti e la sua interdipendenza con gli Stati Uniti. Se la Germania romperà con gli Usa, subendo l’attrazione magnetica della Russia, proprio mentre la Gran Bretagna pensa di sostituire gli Stati Uniti con la Cina, i paesi più avveduti, nel gruppo dei quali il nuovo governo dovrà schierare l’Italia, non possono e non devono seguirla. L’Europa, al di là della soluzione funzionalista e di spoliazione di sovranità che si è realizzata con questa Unione Europea, non può sussistere né come entità economica né come entità geopolitica senza un saldo rapporto atlantico con Washington. Chi coltiva questa illusione non va ascoltato. L’Italia ha bisogno del mondo americano, non solo perché non può fare a meno di quel mercato, ma perché ha bisogno degli Usa come esportatore di sicurezza in Medio oriente e nell’Heartland, baricentro strategico del mondo intero, la cui importanza aumenta ancora oggi in proporzione alla cecità politica con cui sedicenti analisti lo nascondono all’attenzione mondiale. Va da sé che la Russia può avere un ruolo positivo per l’Italia solo in un rapporto di entente cordiale con gli Stati Uniti, non nell’assecondare una unilaterale fascinazione buona solo a produrre squilibri e isterismo politico.
I finanziamenti degli obiettivi riformatori — e preferisco chiamarli così, perché finalizzati alla crescita, all’opposto di come li ha intesi il Fmi —, a cui si deve rimproverare di nascondere dietro nomi inadeguati due vere necessità del paese, un sistema di politiche attive del lavoro e una riforma del sistema pensionistico, comprensiva di una restituzione di dignità ai lavoratori se non vogliamo eliminarli, costringendoli a lavorare fino a 70 anni, è vero, sono un problema dirimente. Ma è altrettanto vero che non ha senso parlare di una nuova politica economica se prima non si rinegozia integralmente il fiscal compact, come più volte è stato detto su queste pagine. Bisogna continuare a stare nell’Europa e nell’euro, ma se si vuol fermare il molecolare processo di desertificazione europea imposto dalle insensate, ragionieristiche politiche di austerity, ed evitare che i paesi meno forti la seguano in questo destino, occorre abolire il fiscal compact e togliere quella follia che, su mandato di Bruxelles, i nostri parlamentari — eccetto, va detto, quelli della Lega — nel triste 2012 vollero inserire nell’articolo 81 della nostra Carta, ossia il pareggio di bilancio.
Dunque, M5s e Lega sappiano rendersi interpreti del bene del paese, assumendosi il compito di uscire dal fiscal compact e poi di rinegoziare i trattati europei. Non è vero, come si legge su giornali interessati, che questo sia impossibile o vietato. Un assunto, strategicamente interessato, che contraddice la secolare storia delle relazioni internazionali. I trattati si rinegoziano, non per fare le guerre, ma per impedirle, o per evitare ai popoli di ridursi in miseria.
L’Italia dunque, finalmente forte di un mandato popolare, può diventare campione dell’alleanza internazionale con gli Stati Uniti e campione nella ridefinizione dei trattati europei. Le due cose non sono affatto incompatibili.
Resta, ai giovani leader, la difesa del Parlamento e del sistema parlamentare. Figli di un sistema maggioritario e di un bipolarismo spuri, durati un quarto di secolo, non avvezzi alla trattativa complicata che avviene tra le forze elette con sistema proporzionale, devono comprendere che la politica non è esclusione ma rapporto tra generazioni, tutela delle relazioni sociali. Non denigrino il Parlamento: fare campagne contro i vitalizi è un atto di lesa maestà. Se vogliono, come dicono, che tutti facciano politica, tutelino il diritto dei poveri e non solo dei ricchi a fare politica. Ma per questo occorre una grande conversione intellettuale, disconoscendo il ventennale, capillare lavoro di chi per vent’anni ha spiegato agli italiani che la casta sono i politici. No. Le vere caste stanno altrove.