Il difficile viene adesso. Per il Movimento 5 Stelle e la Lega è venuto il momento di calare le carte sul tavolo, e sottoporle al giudizio altrui. Quello del Quirinale, anzitutto, e quello dell’opinione pubblica.

Che si potesse trovare una quadra sul piano del programma non era poi così difficile da prevedere. Due forze apertamente antisistema avevano parecchi punti in comune. Basta focalizzarsi su ciò che unisce piuttosto che su quel che divide per trovare l’accordo su cosa fare insieme: revisione della legge Fornero, freno all’immigrazione clandestina e reddito di cittadinanza, ma declinato in modo di non apparire una misura puramente assistenziale.



Sulla carta tutto facile e tutto fattibile. Ma ora queste idee debbono essere sottoposte al vaglio del presidente della Repubblica che pare sia ancora all’oscuro del nome del prescelto per incarnare un programma tanto impegnativo. La partita a scacchi con il Colle è solamente all’inizio. Mattarella in un crescendo rossiniano negli ultimi giorni ha piantato paletti molto precisi. Si è proposto come guardiano delle scelte di base del paese, quella atlantista (la scivolata di Salvini pro Siria è stata giudicata preoccupante), al pari di quella europeista (mazzate sui sovranismi, Orbán e Le Pen in testa, sempre punti di riferimento del leader leghista). Ha ricordato con puntiglio che per mantenere il governo entro i binari ha a disposizione un ampio ventaglio di poteri, a partire dalla possibilità di indirizzare la scelta del premier e dei ministri, sino alla facoltà di rinviare alle Camere leggi senza copertura, o persino negare la firma ai disegni di legge d’iniziativa del governo che dovessero presentare profili di incostituzionalità, o cozzare contro i pilastri della politica del paese.



Mattarella non vuole uno stato di scontro permanente fra il Quirinale e Palazzo Chigi, ma ha ha messo le mani avanti, Di Maio e Salvini sono avvertiti. Non tutte le idee avranno vita facile. E i primo esame sarà il nome del premier chiamato a incarnare l’accordo fra i due partiti. Peraltro sarà con lui, a stretta norma di Costituzione, che il Capo dello Stato dovrà discutere della composizione del nuovo esecutivo.

A poche ore dall’incontro decisivo al Quirinale l’impressione è che la partita per la premiership non sia ancora definitivamente chiusa. I due Dioscuri della nuova maggioranza si sono elisi a vicenda: a entrambi costerebbe troppo dare via libera all’altro sulla via verso Palazzo Chigi. E anche l’idea della staffetta sembra che sia stata archiviata. Puzza troppo di Prima Repubblica, di Craxi e di De Mita. Pare che sia stata archiviata anche l’ipotesi di ricorrere a un tecnico, perché qui il ricordo nefasto porta il nome di Mario Monti. Ma sull’identikit di un nome politico che possa mettere d’accordo i due litiganti nella notte più lunga si susseguono voci e smentite. Un totopremier che sembra un frullatore impazzito.



Pare esclusa la possibilità di una donna (Elisabetta Belloni e Giulia Bongiorno i nomi circolati sino all’ultimo), ma anche che il jolly possa avere la faccia di Roberto Maroni. Troppo negativi i suoi rapporti attuali con Salvini. Bocciato poi dai 5 Stelle il numero due del Carroccio, Giorgetti (apprezzato a destra, a sinistra, e anche al Colle), non si capisce perché la Lega dovrebbe dare il via al numero due dei 5 Stelle, Riccardo Fraccaro. Ecco allora profilarsi l’ipotesi del ritorno sulla scena di Giulio Tremonti. Più difficile Zaia, perché porterebbe il Veneto alle elezioni. Ma sono solo rumors, tutti da verificare, dopo un confronto con Mattarella.

Il nome del premier del governo giallo verde dovrà poi essere spiegato all’opinione pubblica, e ai mercati finanziari. Sinora c’è stata bonaccia, ma non è detto che la speculazione internazionale continui a disinteressarsi della crisi politica italiana. Il Quirinale preferirebbe evitare questo rischio con mosse che non vadano a scassare i conti pubblici, disattendendo al tempo stesso gli impegni europei. Un approccio graduale è vivamente consigliato.

Prima di entrare da Mattarella allo Studio alla Vetrata, insomma, è bene che Salvini e Di Maio si chiariscano bene le idee fra di loro: se dovessero fallire, il prezzo che pagherebbero in termini di credibilità e di consenso sarebbe elevatissimo.