Dall’orbita della politica lo smottamento è stato finora lento ma costante verso il buco nero della satira. E, come nel film di Monicelli “Brancaleone alle crociate”, i due protagonisti politici del momento alternano impeto a riflessione con un ritmo sempre meno riconducibile a un qualsiasi senso. Pronti a tutto, ma finora buoni a nulla. Imitazioni delle loro imitazioni, come la stratosferica versione crozziana del Di MaiOs, il sistema operativo che ripete continuamente “ricalcolo” perché come un Gps incantato non sa dove andare e quella di Salvini, che borbotta imbronciato “tombini di ghisa” e nessuno sa perché.
Vietato però qualsiasi accostamento al tandem che sfilò sotto il Partenone qualche anno fa, Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis. I due rottamatori greci, finiti in un batter d’occhio rottamati, avevano la maggioranza e per qualche settimana fecero letteralmente tremare l’Europa, salvo capitolare per fame, come nella nemesi storica dell’assedio di Troia, espugnati dalla loro dipendenza finanziaria dall’estero. Il pericolo che la finanza internazionale venisse sconvolta da due che avevano sulla carta i numeri per governare fu reale, ma appunto avevano i numeri non i soldi. E oggi la Grecia è una colonia. Di Maio e Salvini non hanno neanche loro i soldi per essere davvero eretici in Europa, e per di più non hanno i numeri per tentare.
E allora perché? Perché vanno avanti? Davvero contano sul demiurgo, come avrebbe potuto ben essere il professor Giulio Sapelli, candidato unico bruciato in poche ore dai disaccordi carsici dei due leader? O come potrebbe ancora essere Giuseppe Conte, il docente fiorentino di diritto privato che è parso unire su di sé la stima del leader pentastellato ma anche del presidente Mattarella e addirittura del vero, dissimulato padrone del Pd Matteo Renzi? La sera di martedì quest’ipotesi aveva preso corpo, poi nelle ultime battute della giornata è parsa oscurata dall’ipotesi di una staffetta Di Maio-Salvini al premierato, già meno beota di altre ipotesi ancorché inficiata dall’evidente inverosimiglianza di una durata nel tempo talmente lunga e sicura dell’eventuale governo giallo-verde da permettere un programma di alternanza.
Due parole su Conte, più che altro per archiviare la pratica utilizzando il professore come l’identikit di ciò che lo sbilenco tandem di governo non trova: Conte è – per dire – un 51enne capace di presiedere la Commissione del Consiglio di Stato incaricata di smarcare la grana Bellomo (il consigliere bizzarro che obbligava le allieve dei suoi corsi a presentarsi in minigonna) e di riuscirci, in punta di diritto; una buona laurea alla Sapienza, perfezionamento a Yale e a Cambridge, oggi una cattedra tenuta con decoro; insomma, un primo della classe con un mestiere all’attivo, e non uno scappato di casa come Di Maio o un intelligente – e brillante, finché ha studiato: anche con Sapelli! – ma smanioso politico puro come Salvini. Per questo Conte è stimato dal presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, a sua volta stimato da Mattarella. Ed è per giunta fiorentino, il che non guasta, visto che la leadership politica di Renzi prima o poi, in salsa democristiana, non mancherà di riaffiorare nel Paese. Ma tutto qui, e nient’altro che questo.
Da oggi è ancora un altro film. È paradigmatica la surreale vicenda del contratto di governo rivelato da Lucia Annunziata, lasciato filtrare all’esterno, pieno di proclami dinamitardi – come la boutade esilarante di una Bce che abbuonerebbe all’Italia, chissà poi perché, la bazzecola del 12% del suo debito pubblico solo per accontentare il nuovo governo -, contratto scritto e già rinnegato come “superato” da Di Maio (ancorché datato il giorno prima), e sottolineando: “Non l’ho neanche letto”. Ma allora cosa sta lì a fare se nemmeno legge ciò di cui starebbe discutendo?
Quel che non si capisce è perché Salvini ritenga (o abbia finora ritenuto) conveniente tirare ancora in lungo la pantomima. La Lega è un partito vero, anzi è oggi il partito più antico in continuità giuridica. È strutturato: ha a bordo gente di governo seria e tosta come Luca Zaia o Roberto Maroni o Attilio Fontana o ancora Giancarlo Giorgetti e altri. Ha una base popolare vera, al Nord, che chiede meno tasse, cosa impraticabile oggi, ma anche cose semplici e fattibili: più sicurezza, redini strette sull’immigrazione, un po’ di burocrazia in meno. È intimamente connesso con Forza Italia e, personalmente, Salvini con Berlusconi perché governa insieme tre regioni chiave per il Paese. Berlusconi da pochi giorni è ricandidabile, e i sondaggisti stimano l’effetto di un suo ritorno in campo diretto nel ruolo del candidato premier un buon 4% di voti in più. Da un ritorno alle urne, la Lega sembra aver tutto da guadagnare, sia come partito in sé che come coalizione.
Di Maio invece, nel quadro di una nuova campagna elettorale, altro non potrebbe fare che prendersela con i poteri forti che – dirà poi immancabilmente – hanno boicottato e stroncato il Sol dell’avvenire, anzi lo sta dicendo già, dopo l’articoletto con cui un Financial Times (che in termini di prestigio è ridotto all’ombra di se stesso dopo la Brexit) ha parlato di “barbari alle porte”. La sostanza dei fatti è e resta che i Cinquestelle al 100% e la Lega al 50% – per la forte componente programmatica dell’irrealizzabile flat-tax, mentre gli altri punti chiave del suo programma realizzabili lo sono eccome – hanno vinto le elezioni millantando credito e ora non sanno come fare per salvare la faccia.
E quindi la vera scommessa è se “tra poche ore” Di Maio e Salvini si arrenderanno accusandosi reciprocamente davanti al Quirinale e agli italiani di aver sabotato la possibile intesa; o se rabberceranno un qualche bozza di contratto di governo e inizieranno l’avventura, probabilmente con la formula della staffetta che darebbe a Di Maio l’onere del primo tempo, ma soprattutto l’onere maggiore dell’insuccesso, per poi sfracellarsi alla prima curva, al primo dissenso, alla prima crisi internazionale.
Chiunque abbia frequentato un’assemblea di condominio o una riunione del consiglio direttivo di una società sportiva, sa che “gli italiani sono così”: rissosi, gaglioffi, imprecisi, pressapochisti, opportunisti. In questo senso il tandem di transitorio comando ci rappresenta icasticamente. Ma non c’è da stare troppo preoccupati. Il nostro Paese è inchiodato al trascinamento semiautomatico delle decisioni europee e del sistema economico-finanziario dell’Unione dai 38 miliardi di euro al mese di titoli di Stato che deve piazzare sui mercati per sostenere il suo attuale tenore di vita, con i 2.300 miliardi di debito pubblico ci ci schiacciano. Nelle ultime 24 ore di pseudo-trattative giallo-verdi, abbiamo immesso sui mercati un miliardo e spiccioli di debito pubblico, e i mercati ce li hanno accettati. Questo conta, tutto il resto sono chiacchiere.