“La sovranità popolare, caro Mattarella, non è sinonimo di interesse nazionale”. Lo ha scritto ieri mattina il direttore del Foglio, Claudio Cerasa. Lo ha scritto come lead di un ennesimo editoriale allarmistico sulle prospettive di formazione di una maggioranza di governo M5s-Lega. Che il giornalista in questione — al pari di chiunque, giornalista o non — ha certamente il diritto di sgradire e di contrastare in modo argomentato: la libera stampa in democrazia è questo.
Diverso è però strattonare il Presidente della Repubblica — anzitutto garante della Costituzione — urlandogli nelle orecchie che l’articolo 1 di quella Costituzione è un fake, che è da ingenui e forse da eversori difenderlo sempre imparzialmente. Dicendogli più o meno che ai bambini delle elementari sarebbe meglio non insegnare che il loro voto varrà domani come quello dei loro compagni e compagne di banco ed eserciteranno assieme “la sovranità popolare nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Né andrebbe loro ricordato che oggi il voto dei loro insegnanti e dei loro genitori vale quello dei presidenti della Repubblica e dei direttori dei giornali.
Non andrebbe loro chiarito che — nella Repubblica italiana del 2018 — non ci sono re e o duci, soviet o comitati d’affari (e neppure Grandi Fratelli online) a decidere cos’è l'”interesse nazionale”. E quando anche loro come i genitori o i nonni sentono parlare a scuola della “tassa sul macinato” che nei primi anni dell’Italia unita fece cadere un governo troppo rigido sul pareggio di bilancio, bisognerebbe sempre rammentare che allora la Camera era eletta dal 2 per cento della popolazione: gli italiani maschi che sapevano leggere e scrivere e pagavano almeno 40 lire di tasse all’anno. Ma già nel lontano 1876 non si poteva più prescindere dall’altro 98 per cento per governare il Paese. Infatti l’idea persistente di valutare gli “interessi nazionali” in modo autoritario trasformò Milano in un terreno di guerra civile e costò infine la vita al re in persona. Anche questo viene insegnato a scuola.
La “sovranità popolare” — cosa molto diversa dal “sovranismo” — è una conquista recente. Ancora un secolo fa il re si permise di non rispettare un Parlamento eletto dal suffragio universale maschile con forti rappresentanze di popolari e socialisti. Divenne premier e poi dittatore, per vent’anni, un politico che aveva completamente fallito il primo test elettorale del primo dopoguerra. E l’Italia, nel 1945, finì come finì.
La Repubblica democratica e costituzionale nata dopo il 1945 ha mostrato la forza di resistere a un presidente della Repubblica — Antonio Segni — che aveva cominciato a mettere in dubbio la sovranità democratica quando questa stava decidendo il primo governo di centro-sinistra. Un altro presidente della Repubblica, Giovanni Leone, dovette dimettersi nel 1978 perché confondeva interessi pubblici e privati, ma soprattutto perché era inadeguato a un’Italia che stava nuovamente cambiando: che aveva bisogno di riaffermare la sovranità democratica contro il terrorismo e che grazie alla democrazia di mercato voleva uscire in avanti da una grave crisi economica.
Certamente non è facile dire se la Seconda Repubblica Italiana al tramonto sia in tutto avvicinabile alla Quarta Repubblica francese del 1958, quando il generale Charles De Gaulle diventò il “comandante in capo” della Quinta. Oppure se il paragone più calzante sia con la ricorrenza di questi giorni, quel maggio 1968 quando iniziò il declino di De Gaulle e della sua convinzione di interpretare “una certa idea della Francia” molto meglio di tutti gli studenti e gli operai in piazza. Finì che gli dissero di no perfino i suoi colleghi generali: prima che glielo dicessero — democraticamente — tutti i francesi in un referendum.