“Se poi il presidente americano lascerà davvero l’accordo sul nucleare iraniano, il Libano finirà ancora una volta per trovarsi in mezzo a un conflitto che lo coinvolgerà”. Rischiano di diventare drammatica realtà queste parole di Camille Eid nell’intervista rilasciata al Sussidiario. Le elezioni politiche in Libano, le prime dal 2009, si sono svolte con un nuovo sistema elettorale, sostanzialmente proporzionale e con voto di preferenza. Malgrado la limitata partecipazione, meno del 50 per cento contro il 54 per cento del 2009, il nuovo sistema ha favorito l’emergere di posizioni differenziate rispetto ai tradizionali schieramenti, fondamentalmente basati sulle distinzioni religiose: sunniti, sciiti, cristiani, drusi e le loro varie articolazioni. Un dato che appare rilevante è il notevole calo del partito del premier Saad Hariri, sunnita, probabilmente in conseguenza del suo “sequestro” da parte dell’Arabia Saudita nello scorso novembre.



Ciò che pare evidente è la crescente insofferenza per le interferenze esterne, saudite o iraniane, e per il coinvolgimento in Siria, anche tra gli sciiti libanesi. Il timore è che l’attiva partecipazione delle milizie di Hezbollah nella guerra a fianco del governo di Damasco finisca per trascinare l’intero Paese nel conflitto siriano. Come dice Camille Eid, difficilmente il Libano riuscirebbe a rimanere neutrale in uno scontro globale nella regione. Dopo la guerra del 1948 — con Israele non è stato firmato un trattato di pace, ma solo un armistizio — Israele ha attaccato il Libano tre volte: nel 1978, nel 1982 e nel 2006. Dopo l’invasione del sud nel 1978, l’Onu al confine tra Israele e Libano ha schierato l’Unifil, una forza di interposizione di più di 10mila militari di 42 Paesi diversi. Il maggior contributo è attualmente fornito dall’Indonesia con 1285 unità, seguita dall’Italia con 1073.



Il Libano non ha partecipato alla guerra del 1967 contro Israele, cercando così di sottrarsi alla questione israeliana, ma si è subito dopo trovato coinvolto in quella palestinese. Da quell’anno, infatti, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) cominciò ad operare dal Libano contro Israele, trasferendovi poi il centro dell’organizzazione dopo il “Settembre nero” del 1970. Cioè dopo l’attacco condotto in quel mese dall’esercito giordano contro l’Olp, che finì con l’espulsione dei guerriglieri palestinesi verso il Libano. I palestinesi furono uno degli elementi che portarono nel 1975 all’inizio della lunga e sanguinosa guerra civile libanese. Gli attacchi dell’Olp a Israele dal territorio libanese portarono all’invasione israeliana del 1978, con l’occupazione di una parte del Libano del sud, e a quella del 1982, in cui gli israeliani arrivarono ad assediare Beirut. L’intervento americano costrinse l’Olp ad abbandonare il Libano, ma la guerra tra le fazioni libanesi continuò fino al 1990. A seguito degli accordi, fu inviata in Libano una forza internazionale di peacekeeping, composta da militari degli Stati Uniti, Francia e Italia.



Nel 1982 nasce però Hezbollah (“Partito di Dio”), il partito sciita libanese che, con l’aiuto degli iraniani, si dota di una agguerrita milizia armata e da subito pone tra i suoi obiettivi la lotta ad Israele. A Hezbollah vengono attribuiti gli attacchi all’ambasciata americana a Beirut nell’aprile 1983, con 63 morti, e a una caserma della forza internazionale, nell’ottobre dello stesso anno, in cui furono uccisi 241 marines americani e 58 paracadutisti francesi. L’attentato portò al ritiro del contingente internazionale nel successivo febbraio. I continui attacchi di Hezbollah contro Israele portarono a una nuova guerra da metà luglio a metà agosto del 2006.

Molti commentatori ritengono inevitabile una nuova guerra con Israele, che considera Hezbollah una seria minaccia alla propria esistenza, tanto più per la sua stretta alleanza con l’Iran e il regime di Assad. Tuttavia, recenti dichiarazioni dei vertici politici del movimento sciita indicherebbero una maggiore prudenza, probabilmente per la già citata insofferenza per il coinvolgimento di Hezbollah in Siria. Il prossimo governo sarà probabilmente guidato ancora da Hariri, ma non potrà escludere la partecipazione di Hezbollah, insieme ai maroniti del presidente Michel Aoun. All’interno dello stesso Hezbollah, come dell’alleato Amal, vi è chi sostiene la necessità di un disimpegno del Libano dai conflitti che lo circondano. E sempre più critica diventa la presenza di un milione di profughi siriani, pari a un quarto della popolazione libanese.

A raffreddare la situazione non concorrono, peraltro, certe prese di posizione israeliane, come le recenti dichiarazioni del ministro dell’Educazione Naftali Bennett: “lo Stato di Israele non distinguerà tra lo Stato sovrano del Libano e Hezbollah e considererà il Libano responsabile per ogni azione che parta dal suo territorio”. Bennett è un “falco”, ma la sua frase solleva un reale problema irrisolto: il disarmo delle milizie sciite, sempre rifiutato da Hezbollah. E rimane difficilmente accettabile anche per molti libanesi che un membro del governo nazionale mantenga un proprio esercito separato da quello dello Stato.

Se la questione palestinese non è più un fatto interno del Libano, quella israeliana è ritornata a condizionarne la vita, né sembra possibile che siano i libanesi da soli a risolverla. Occorre che venga a soluzione un’altra questione, quella americana: che Trump, o meglio il Deep State, accetti ciò che è ormai un dato di fatto. Il tentativo di abbattere con la forza il regime di Assad è fallito, ma la ritirata dell’Isis rende possibile una soluzione del conflitto positiva per tutti. La fine della guerra in Siria è la condizione necessaria per iniziare un processo di stabilizzazione della regione, e pazienza se questo vuol dire accettare anche il ruolo, non certo secondario, della Russia. A Washington farebbero bene a rendersi conto che il gioco vale la candela, anche per loro.