Ormai sembra proprio che si farà. Cosa sarà e quanto durerà lo si saprà solo dopo. Ma alcune domande si possono legittimamente porre fin d’ora e qualche risposta si può anche tentare.

Prima domanda: c’erano altre possibilità? Per quanto possa non piacere, occorre riconoscere che non c’erano altre soluzioni.



Nonostante tutto,  alla fine, si capirà che il buon Di Maio, raffigurato — a volte non a torto — come una sorta di miles gloriosus, ha fatto semplicemente quel che poteva fare, e non poi così male. Di fronte all’insormontabile muro eretto dal “voto di clausura” del Pd, non poteva, all’inizio, che rivolgersi alla Lega, tuttavia prospettandole l’abbandono di FI e FdI, che, obiettivamente, era una cosa forte e politicamente molto significativa. Il naufragio di questo tentativo non poteva che spingerlo ad una disperata sollecitazione del Pd, che sembrava  legittimata dal “ritorno nel mondo” fatto intravedere da Martina. Il fuoco di sbarramento opposto, però, dall’intervista di Renzi non poteva che costringerlo a rinunciare anche a questa alternativa e ripiegare sulla prospettiva delle elezioni anticipate. La sopravvenuta offerta della Lega di rinunciare ai suoi alleati, lo ha costretto alla coerenza con la sua prima mossa e ad esplorare l’ipotesi di un accordo “paritario” (questo, infatti, è il senso della disponibilità a concordare un premier terzo).



Lo si dica chiaro: Di Maio ha seguito passo passo lo schema della Merkel, solo che, invece della Spd che, seppur acciaccata, è ancora un partito, ha incontrato una compagine retta da un “socio-tiranno”.

Questa è la nuda sostanza di quel che è avvenuto: il resto è solo chiacchiericcio. La teoria dei “due forni” è solo un artificio denigratorio: il forno del Pd, infatti, non è mai stato aperto (purtroppo), né all’inizio, né dopo, perché Renzi lo ha sempre tenuto chiuso con un catenaccio a doppia mandata.

Far naufragare l’ipotesi di accordo con la Lega? Molti se lo auguravano (anche chi scrive). Ma bisogna anche riconoscere che nuove elezioni avrebbero verosimilmente consegnato il paese ad un centrodestra a trazione leghista: il M5s per aspirare al superamento della soglia fatidica del 40-42 per cento avrebbe avuto bisogno di circa tre volte i voti che sarebbero bastati a Salvini ed ai suoi alleati e l’effetto di trascinamento su di un elettorato sfinito non ha bisogno di essere spiegato.



Seconda domanda: merita la massa di critiche che gli sono state rivolte? Questa valanga di critiche investe i principi ed il merito.

Le critiche di principio riguardano il sovvertimento dell’assetto costituzionale e la collocazione dell’Italia nella Ue e nella Nato.

Le prime, va detto chiaramente, grondano cattiva fede. L’ormai famoso “comitato di risoluzione delle controversie” è, semplicemente, l’ingenua verbalizzazione di quello che è sempre avvenuto: chi può seriamente dubitare che il governo di unità nazionale, stroncato dall’infame uccisione di Moro, avrebbe mai potuto funzionare senza la diuturna mediazione extra-governativa dei vertici di Dc e Pci? E’ ingenuo scriverlo? Assolutamente. Ma è manifestamente insincero indicarvi un attentato alla Costituzione. Come anche lo è denunciare di incostituzionalità la mancata indicazione delle coperture del programma. Le coperture nei programmi non ci sono mai state e la costituzionalità delle leggi che li attuano è garantita dal dovere del Capo dello Stato di rifiutare la firma a quelle di esse che non le esibiscano. E lo è pure quanto nel programma si dice a proposito del vincolo di mandato: semplicemente perché richiede una modifica costituzionale, per la quale Lega e M5s non hanno proprio i numeri. Il vero è, piuttosto, che queste “allarmate” eccezioni sono solo, nella migliore delle ipotesi, un disperato tentativo di spingere Mattarella ad impedire la formazione di questo governo: il che è del tutto improponibile e sarebbe, questo sì, incostituzionale (oltre che inutile, visto il probabile esito di nuove elezioni). Sicché quest’ordine di critiche mostra solo il livello proprio basso cui è giunta la politica in Italia, e con essa spesso, ahimè, le opinioni che la commentano.

Lo stesso è a dirsi per i rapporti con la Ue. Le proposizioni più imbarazzanti sono scomparse dal testo definitivo e costituivano, all’evidenza, solo un manifesto propagandistico, anche questo ingenuo, volto a sedare un elettorato, soprattutto della Lega, cui questo programma sta stretto. D’altronde tutti, ma proprio tutti, sapevano che quelle posizioni non avrebbero mai avuto alcuna reale implementazione. Resta — è indubbio — un diverso sguardo verso la Ue. Il quale muove, però, da problemi reali che qualsiasi governo, prima o poi, dovrà affrontare. E analogo discorso vale per la posizione dell’Italia nella Nato (ancora una volta si ricordi la Merkel: “bisognerà talvolta fare da soli”).

Più serie sono le obiezioni di merito, le quali si risolvono, per lo più, nell’eccezione che nessuna delle indicazioni del programma è fattibile, poiché i vincoli europei impediscono anche solo di pensarla.

Questa eccezione, all’apparenza sensata, avrebbe dovuto accompagnarsi, però, ad un interrogativo radicale: ma se niente è fattibile, che modifichi realmente l’odierno stato delle cose, a che serve votare? Chi si limita a ragionare così non si rende conto di destituire il senso stesso della democrazia: cosa di cui, in questo tempo di crisi, non si sente proprio il bisogno. Allora bisognerebbe, forse, incitare alla rottura dei vincoli europei? Inneggiare alla corsa sul ciglio dell’abisso? Evidentemente no. Ma vi è un ben diverso modo di approcciarsi a queste cose, un modo del quale non si è mai avuto in questi due mesi un qualche sentore, né presso la politica, né — ancor meno — presso la stampa influente. E cioè: visto che nessuno può seriamente negare la gravità e l’urgenza dei problemi messi a fuoco dal voto del 4 marzo, mobilitare immaginazione e competenze non, come si è fatto, sulla domanda “si può fare?”, ma su quella, radicalmente  diversa, “cosa è più urgente e come si fa a farlo?”. E invece: fuoco di fila indiscriminato contro reddito di cittadinanza, flat tax e riforma pensionistica, e — udite, udite — riscoperta del Mezzogiorno, ma non per mettere a fuoco i nuovi e improcrastinabili termini della “Questione meridionale” bensì solo per disamorare gli elettori meridionali del M5s.

Anche chi non condivide affatto la nascita di questo governo non può non giudicare semplicemente intollerabile l’aria che ne ha accompagnato la formazione: un establishment come mai unito nell’offrire con sussiego Costituzione à la carte e superficialità strumentali di ogni genere pur di scongiurarlo. A non interrogarsi su come è cambiata la società italiana e su cosa mostra il risultato elettorale non è solo il Pd, ma anche l’apparato mediatico più influente.

C’è, invece, una critica che nessuno ha fatto e che dà ingresso alla terza domanda. 

Terza domanda: dove ci porta. Sembra improbabile — come invece molti malevolmente preannunciano — che questo governo stresserà i conti finanziari fino a generare una recessione economica. E’ più probabile, invece, che la parte “sociale” del contratto di governo subirà pesanti ridimensionamenti. E sembra pure possibile che il peso del tentativo di conservare il consenso si scaricherà sul “muro basso” dei migranti: qualcosa a loro carico si farà, magari più d’effetto che di sostanza.

Allora hanno ragione i critici senza quartiere? No. No, perché le risorse, che non verranno dall’Europa nella misura necessaria, potrebbero venire, invece, dall’interno. Corruzione ed evasione ammontano annualmente a circa 250 miliardi, sicché ne basterebbero appena un terzo per fare quel che c’è da fare. E in aggiunta ci sarebbero anche da sperimentare mirate e selettive misure redistributive. Ma è proprio questa via “praticabile” che le nozze di M5s e Lega fanno sembrare impercorribile.

E questo è il punto: che il M5s è (è stato fin qui) un movimento politicamente indeterminato e che i suoi sponsali con la Lega rischiano di determinarlo in un quid che potrebbe prendere i colori della destra, magari di una destra “popolare”, che, però, sempre destra è. E non solo perché la Lega intrattiene rapporti con Casa Pound o con la Le Pen, né perché è più che reticente sul fascismo o sulla Resistenza. Ma prim’ancora, e soprattutto, perché ciò attorno a cui si è cementata ed è cresciuta, rimane una concezione piccolo-borghese e proto-capitalistica della società. La flat tax ne esprime, in fondo, la reale filosofia: lasciamo i soldi in tasca a chi se li è guadagnati e poi ognuno si salvi da solo. Quest’altra filosofia non implica affatto una base sociale sempre diversa da quella del M5s (anzi), ma designa una forte e consolidata egemonia, la quale inevitabilmente la spinge lontano dalla solidarietà e la destina inevitabilmente all’alleanza (subalterna) con i grandi interessi consolidati (e d’altronde, che sia alleata da un quarto di secolo con il partito di Berlusconi vorrà pur dire qualcosa). Questo governo produrrà una riqualificazione politica della Lega o un’involuzione a destra del M5s? Francamente, il carattere ben più strutturato della prima e la consolidata egemonia che essa esibisce fa sembrare più verosimile la seconda ipotesi. Alternativa alla quale può essere solo una rottura sul dilemma flat tax versus reddito di cittadinanza o la paralisi.

Ed è questa anche la ragione per la quale ci sarebbe stato da augurarsi che questo governo non nascesse (anche a costo di ritrovarsi governati dal centrodestra): questa sopravvenuta determinazione del prima indeterminato M5s toglie ogni speranza alla sinistra, anzi — meglio — alla prospettiva della solidarietà.

Questo è, alla fine, proprio quello che tenacemente ha perseguito il Pd, anzi Renzi e la stampa influente che lo ha sostenuto e continua a sostenerlo: lo “sputtanamento” del M5s. Ma questa politica si fonda solo su di un’illusione, quella di chi continua ad immaginarsi il mondo come gli piacerebbe che fosse, rifiutandosi di vedere come ormai invece è cambiato. Chi ha abbandonato il Pd, ahimè, non ci ritorna, e lo scavalco dei LeU ne è la prova più evidente: non li hanno votati perché li hanno giudicati, e forse non a torto, troppo simili. Per nutrire speranze diverse occorrerebbe una svolta radicale del Pd, che gli opinionisti più accreditati, a parole, gli sollecitano, ma guardandosi bene dall’indicare in che direzione dovrebbe avvenire: “ascoltare la gente” e “tornare sul territorio”? ma per far che? forse per spiegare che avevano ragione a gente che quelle ragioni le ha già sentite e non le vuol più ascoltare? o per ammonirli che se perseverano saranno puniti dall’Europa e dai mercati col solo risultato di veder rinfocolati la disaffezione e il risentimento? 

Il fatto è che un cambiamento non si può immaginare muovendo dall’idea che “non ci siamo fatti capire”. Questo ritornello parla solo ad un nucleo benestante e benpensante, e soprattutto “protetto”, che ha già capito quel che c’era da capire (per sé) e dal quale era, ed è, distante ogni ragione di protesta. E mai coinvolgerà quanti all’abbandono del Pd sono giunti, talvolta dolorosamente, a partire dalle loro condizioni materiali e spirituali di esistenza. Certo, anche questo può mutare in forza di un’altra egemonia: ma — in verità — chi mai può diversamente concepirla in un partito che si è ormai così costruito? L’occasione c’era, ed è stata sprecata. Tutto questo è triste per chi si riconosce nell’orizzonte della sinistra (o, più in generale, in quello di una società solidale), ma non prenderne atto non serve certo a salvarla.